L’Europa in fiamme
di F.B.
In alcuni momenti storici si manifesta una tragica congiunzione degli opposti, vi sono anni in cui barbarie e civiltà sembrano confondersi e aprire delle prospettive inedite nella storia dell’uomo. Così è stato alla fine dell’Impero Romano, nel lungo e contraddittorio Medioevo e così è stato negli anni della Prima Guerra Mondiale. Nel suo ampio studio L’apocalisse della modernità lo storico Emilio Gentile affronta un ampio spettro di correnti politiche e culturali che tra la fine dell’800 e il corso della Grande Guerra attesero come necessità destinale la distruzione del mondo sin lì conosciuto.
La modernità trionfante portò a un’accelerazione inattesa nel campo delle tecnologie. La velocità delle comunicazioni e dei viaggi, la quantità e rapidità della produzione industriale, l’importanza centrale delle grandi città; tutto contribuì a un netto mutamento delle condizioni di vita in tutto l’Occidente. A quello che comunemente veniva considerato un aumento della qualità di vita e un rafforzamento della civiltà corrispose però anche una crescente stanchezza culturale e biologica, che in Europa segnò ad esempio una decrescita demografica ma anche una impreparazione militare al cospetto di potenze emergenti come USA, Russia e Giappone.
In queste condizioni crebbero gradualmente le voci critiche nei confronti dei traguardi raggiunti dalla modernità, propagando visioni del mondo in netto contrasto con la fede progressista e borghese nella democrazia, nella scienza e nella pace. La prima voce dirompente in questo coro stonato è quella di Friedrich Nietzsche che può essere considerato a buon diritto il primo esplicito annunciatore della crisi che si profilava all’orizzonte.
Da allora in tutta Europa e in Russia crebbero con maggiore forza ed efficacia i messaggi di pensatori, artisti e circoli culturali che vedevano nella modernità la tremenda manifestazione di una decadenza destinata a compiersi in un enorme e tragico incendio rinnovatore. «Nell’epoca bella della modernità trionfante, le previsioni catastrofiche sul destino della civiltà europea non erano certo una novità. Ma non tutte erano suscitate dagli incubi della degenerazione o dell’ascesa di nuove potenze imperiali, in altri continenti, che minacciavano l’egemonia planetaria dell’Europa imperiale. Vi erano altre previsioni catastrofiche, ed erano forse le più numerose, che riguardavano il fenomeno stesso della modernità nel suo complesso: una nuova epoca della civiltà europea, che nel giro di un secolo aveva trasformato l’uomo e il mondo come mai era avvenuto in tutte le epoche precedenti della storia umana, e continuava a trasformare l’uno e l’altro».
Secondo gli apocalittici russi, tra cui Dostoevskij, era necessaria una vera apocalisse, una distruttiva rigenerazione della civiltà, decaduta dopo essersi perduta nella quiete e nel materialismo modernista. Per altro il grande scrittore russo aveva tracciato un caustico profilo del borghese europeo nelle sue Note invernali, da cui emergeva la dirompente necessità di distaccare la civiltà slava dalla decadenza occidentale. Si insisteva sulla necessità di una rigenerazione che, come sostenevano in molti, sarebbe venuta solo da un uomo nuovo, rinnovato nel fuoco della guerra e nella rinascita spirituale (Steiner). La discesa verso la Prima Guerra Mondiale parve a molti di questi intellettuali e artisti inevitabile e salvifica, poiché proprio dalla tragedia della guerra moderna, tecnologica e distruttiva, poteva suscitare un nuovo tipo umano, semplificato, duro e più profondo.
Perfino autori insospettabili come Thomas Mann salutarono con gioia lo scoppio della guerra, vista come sola opportunità di risollevare la civiltà europea nella barbarie devastatrice. In questa eccitazione, che per qualche anno diede un senso pieno al concetto di Nazione, l’Europa conobbe una nuova drammatica giovinezza, una mobilitazione unitaria che la consegnò definitivamente alle fiamme.
La guerra divenne quindi evento che unì i popoli e li impegnò, costringendoli a svegliarsi dal torpore della tranquillità quotidiana, per catapultarli in un nuovo modo di stare nel mondo. Cambiarono quindi le condizioni di vita ma anche il modo di combattere e morire, tanto che il veterano Ernst Jünger presentò il nuovo soldato come un uomo metallico, indurito dalle inedite condizioni in cui si trovava a combattere e affrontare le morte. Non solo l’aspetto esteriore del conflitto lo interessò, ma soprattutto il lato psicologico e spirituale. Nell’intenso e brutale La battaglia come esperienza interiore emerge tutto il carico di ricchezza interiore celato dalla violenza cupa e mortifera della guerra. Il soldato rappresentava una creatura proveniente da un altro mondo, devastato e ostile, estraneo a quello borghese.
La mattanza della Grande Guerra consegnò alla storia un continente diviso e devastato ma, secondo molti autori e combattenti, aprì anche le prospettive del rinnovamento tanto atteso. Gli uomini sopravvissuti alla guerra potevano allora dare vita a una nuova civiltà, rigenerata e spiritualizzata, realizzando quella rivoluzione che in se stessi era già iniziata.