Der kampf geht weiter
Il 22 aprile più di cento attivisti del centro sociale torinese Askatasuna sono partiti alla volta di Claviere e Nevache in risposta al presidio dei militanti di Generazione identitaria che avevano organizzato un’efficace provocazione contro il transito di clandestini al confine tra Italia e Francia. Come era accaduto i primi giorni di marzo a Firenze, anche in questa occasione si è vista in atto un’alleanza operativa tra centri sociali, No tav e immigrati. Si tratta di un fenomeno su cui è necessario vigilare e a cui è bene dedicare un poco di attenzione.
Nel corso degli anni il pretesto dell’opposizione alla costruzione dei 235 km della Nuova Linea ferroviaria Torino–Lione è servito ai militanti anarchici, comunisti e antifascisti per creare una sorta di zona franca, periferica rispetto alle città più importanti, dove mettere in atto una forma di addestramento alla guerriglia. È quanto meno curioso che proprio le proteste dei No tav abbiano fornito spunti di riflessione ad esempio all’ambiente dell’estrema sinistra greca. Anche in Grecia peraltro la saldatura tra immigrati e centri sociali appare un fenomeno ben radicato nel quartiere ateniese di Exarchia. Ebbene, mentre quest’ultimo è senza dubbio considerabile un buco nero in cui si nascondono traffici criminali di vario genere, l’alleanza tra militanti antifascisti e “l’esercito di riserva” extraeuropeo condensa un potenziale di conflittualità che non va trascurato.
Le proteste dei No tav, continuazione sotto altra forma delle violenze organizzate del G8 di Genova, hanno fornito insomma gli spazi e i tempi alla sinistra estrema per addestrarsi almeno superficialmente alla guerriglia e alla violenza di strada. A questo si aggiunge oggi il coinvolgimento, con i soliti pretesti del razzismo e dei diritti delle minoranze, di immigrati provenienti dai paesi del cosiddetto Terzo mondo. Questo risulta oggi necessario per via della crescente marginalità di determinati ambienti estremistici, incapaci di fornire elaborazioni teoriche di spessore e agenti, più o meno consapevolmente, come longa manus del caos sistemico mondialista.
Protette, finanziate e sobillate queste aree politiche genericamente accomunate da un antifascismo isterico e violento, si pretendono anti-globaliste e anti-sistemiche ma poi in tutto e per tutto assecondano i processi che accelerano la mondializzazione finanziaria, l’omologazione dei popoli, la distruzione delle identità culturali, la perdita delle tradizioni locali, l’abbassamento del livello di vita; il tutto in nome della religione dei diritti umani imposta dalla potenza americana a inizio ‘900 e di un’infantile “fratellanza universale” priva di centratura.
In questo calderone di luoghi comuni, ignoranza e bassa criminalità vengono attirate le masse di immigrati in cerca di fortuna, adeguatamente imbottite di risentimento e invidia da parte di “portavoce” ufficiali dalla discutibile limpidità. Come detto lo si è visto a inizio marzo a Firenze e lo si è visto più recentemente in Piemonte: la violenza organizzata dei centri sociali si appoggia sulla forza di un “esercito di riserva” che per ora si riesce a manipolare a piacimento.
I No tav hanno peraltro dimostrato di saper tenere testa alla Polizia di frontiera e questo dovrebbe indurre un’ulteriore riflessione sull’opportunità o meno di concedere simili zone franche in cui lasciare che si sviluppino certi “talenti”. Forse questo rientra in una strategia più ampia che si fatica a scorgere, e che si può solo supporre vada nella direzione di una graduale e costante intensificazione della pressione sulla realtà sociale per portare caos e violenza nelle città. Questo spiegherebbe la funzione per ora marginale delle masse di immigrati che presto o tardi finiranno inevitabilmente per “imparare il mestiere” e magari per rimpiazzare i loro presunti capetti dei centri sociali, i quali probabilmente sconteranno sulla propria pelle la speranza di poter controllare i loro “fratelli migranti”.
Sarebbe questa la strada per sollecitare nel modo più spontaneo possibile una reazione popolare in risposta alle crescenti violenze di strada. Non passa settimana che la cronaca non riporti di aggressioni brutali a Mestre o a Milano, ma se ai casi isolati si affiancassero le devastazioni e le intimidazioni di interi gruppi di immigrati accompagnati da militanti di sinistra, allora le cose potrebbero andare nella direzione di scontro aperto con gli autoctoni per il semplice controllo del territorio e la sopravvivenza.
Può darsi che si tratti solo di esagerazioni, ma quando un episodio si ripete con le stesse modalità e in intensità crescente nel tempo, ciò sta a indicare che vi è una dinamica in corso. Forse questa non sarà rigidamente controllata, forse si lascerà che le cose vadano da sé, ma sembra possibile se non probabile che la pressione contro l’identità dei popoli europei andrà crescendo, costringendo o a una reazione che, se non strategica e progettuale, non porterà a nulla di buono.
Le reazioni, specie se sull’onda dell’emotività, devono sempre essere evitate. Ciò che fin da ora si può fare è non limitarsi a opporsi allo stato di cose attuale, ma tentare di fornire un modello di vita alternativo, quanto più possibile autosufficiente e in grado di reggere a periodi di crisi e pericolo. I nuclei vivi in cui si assicura la cultura di un popolo sono il clan, la famiglia e la comunità. Sono strutture su cui è possibile lavorare, sviluppandole non come scialuppe d’emergenza, ma concependole come nuclei vivi operanti nel mondo, in grado di diffondere un esempio di bellezza, coraggio, operosità ed equilibrio.
Considerato quanto in profondità le istituzioni siano impregnate della stessa visione del mondo operante attraverso gli atti di estremismo sopra discussi, appare sempre più difficile pensare a una risposta costruttiva da parte dell’attuale classe gestionale. È forse ormai una pia utopia credere che esistano organi istituzionali sani, dato che spesso si tratta di singoli individui i cui tentativi di arginare fenomeni disgregativi vengono ben presto soffocati e supervisionati dalla forza del numero. Pertanto il punto di partenza, l’ancoraggio sicuro, è la comunità resiliente, quella cioè che può considerarsi autosufficiente sotto ogni punto di vista.
FB