CONTROCULTURA ARCHEOFUTURISTA – Luca L. Rimbotti
Lo spazio lasciato libero dal pensiero unico e dalla dittatura mediatica oggi è molto poco, si assottiglia di giorno in giorno. Contraddittori ufficiali in pratica non ne esistono più. Tutti, chi più chi meno, sono piegati a capo chino, ad eseguire i diktat mediatici. Nessuna deroga. Chi non si piega occupa i pochi angoli, i risvolti dello spazio pubblico, fra un interstizio e l’altro, quel poco che sfugge al Panopticum del potere usurocratico e che viene subito occupato dall’intelligenza, un elemento dialettico a forte rischio di estinzione. Intelligenza che deve essere agile, elastica, percuotere le immaginazioni con balzi in divenire. Azione prospettata, volontà di incidere, il chiodo che raschia la superficie levigata dell’informazione omologata, e ne lascia incise parole rivoltose, a caratteri di rune impressioniste, di arcaismo ritrovato. Fare contro-cultura oggi, che viviamo in un regime conformistico di massa, è una speciale missione, è un posizionamento di lotta che merita ogni elogio.
Tutti sappiamo che la politica, intesa come partecipazione attiva alla vita comunitaria, è morta da un pezzo, uccisa dal ricatto utilitario, dalla pace sociale imposta dal passivo conformismo, dalla noia inintelligente. Eppure, tra i morti viventi azzerati dalla narcosi liberal qualcosa si muove, qualche increspatura, a guardar bene, agita la superficie della coltre funebre che tutto ricopre. La liberaldemocrazia, enfiata dal suo spirito mercantile e intasata dal chiasso incomunicante che la ubriaca, nella sua ignoranza strutturale non sente il brusìo del contrasto che nasce, qua e là, che si forma, che attecchisce tra i muschi della resistenza umida e feconda contro il potere plutocratico snazionalizzato.
Scorrendo un caso sintomatico di cultura d’assalto e di contrapposizione, la rivista “Polemos”, vergata da un pugno di audaci fisionauti, avvezzi a dare disciplina al corpo e all’animo, appassionati del suono insolente e dell’idea antagonista, ci si accorge di avere tra le mani una mina culturale non trascurabile. Le idee vengono scagliate come moderni shrapnel che illuminano l’orizzonte buio del regime, attizzando spezzoni di luce che danno incantamento, a chiunque chieda cibo aspro da leoni, in luogo dei brodini da eunuchi che il mainstream tele-visio-matico somministra alle plebi.
Qui, signori, si parla di “prospettive archeofuturiste”. Il riferimento è naturalmente al testo di Guillaume Faye, uscito anni fa come segnacolo di insorgenza anti-mondialista, come faro di teoria e azione, testo che traluceva – e ancora oggi traluce – valori come strumenti di lotta, idee come armi di difesa e d’attacco, buone per aprire la breccia.
Sono ormai diversi anni, dall’uscita nel 2015 del primo numero, dedicato alle “genealogie del conflitto”, che “Polemos” va distribuendo idee come alimento essenziale per una Widerstand testarda e assoluta a tutto campo, mobilitando il meglio della forza ferrea che rotea dentro il pugno del ribelle, l’uomo che non si lascia vincere dalla violenza che è nel numero, nella maggioranza, nella quantità. E allora ripensare Faye, con la sua liberatoria proposta di ingaggiare la lotta nel nome dell’arcaismo prossimo venturo. Il primordiale rinnegato dal progresso torna come scopo e finalità futurista, è l’obiettivo da conquistare per dare logica alla vita, senso al sopravvivere, forza al domani. Faye, dinanzi all’ipotesi, tutt’altro che peregrina, di un prossimo convergere mondiale di tutte le crisi (ecologica, economica, demografica, sociale, etc.) in un’unica grande catastrofe epocale, suggeriva di riattivare un’antica strumentazione di guerra – pòlems, appunto – consistente nel pensare simultaneamente l’arcaico e il futuribile, dando avvìo, in questo modo, all’ultima fase del conflitto generale, quella che dovrà vedere – e vedrà – la disintegrazione della società mondialista, il suo orgiastico sfaldamento in mille rivoli di distruzione, aprendo scenari neo-medievali di nuova aggregazione tribale, clanica, identitaria.
Questa realistica fanta-narrazione nasconde la verità racchiusa nel possibile. I territori liberati dalla sparizione delle ideologie devono essere riempiti dalle ragioni di vita dei popoli. Le cui avanguardie dovranno essere spenglerianamente “deste”, quanto basta per impugnare le idee al momento giusto, così come il mastro artigiano impugna l’ascia per sbozzare il legno grezzo e farne uscire un’agile nave vichinga. La terribilità del gesto è tutta nella sua potenzialità. E’ l’inesorabile, ciò che ben conoscevano gli antichi, avvinti al destino, e di cui i contemporanei, invece, nella loro tronfia ignoranza da basso impero, neppure sospettano l’esistenza.
L’unificazione di Evola e Marinetti – si legge nell’editoriale dell’ultimo numero di “Polemos” – deve rappresentare la volontà di “unire tradizione e tecno-scienza al fine di dare vita a una visione del mondo alternativa a quella dominante”. Questa nuova e definitiva “rivoluzione conservatrice” deve portare dentro di sé un potere di aggregazione/mobilitazione incentrato su disegni di rianimazione delle identità, così da inserirsi nel grande gioco con la possibilità data al granello di sabbia di arrestare il movimento del carro armato. Il discorso è impegnativo, l’analisi è di quelle che danno sostanza ad un vero manifesto politico dell’agire possibile. Davanti al “Grande Reset” che è in corso per mano delle note multinazionali, al lavoro per digitalizzare il controllo planetario e irrigidire il pianeta in un unico format, fase di cui il Covid-19 è solo uno degli aspetti più plateali, davanti a questo spettacolo non più occulto ma solare di macchinazione psico-politica e di ingegneria sociale, “Polemos” azzarda l’etica degli Arditi, e punta all’attacco, anziché alla difesa. Prefigura la possibilità di piegare in qualche misura il cambiamento verso una positiva eterogeneità dei fini, inserendo la nozione di un approccio alternativo alla trasformazione imminente.
La preparazione all’evento comprende l’instaurarsi di una forma interiore adatta alla prova, un’attivazione di cultura della rivoluzione possibile: “Questo è il primo passo per una prospettiva storica archeofuturista, che recuperi la forma mentis integrale europea senza indietreggiare impaurita al cospetto delle sfide inquietanti ed enigmatiche poste dalla tecnica”.
Ecco che, in qualche modo, occorrono occhi penetranti, in grado di cogliere gli spiragli entro i quali gettare i fasci di luce del nuovo pensiero d’azione:
“Nel momento in cui si accetta l’apertura del divenire, il rischio costituito dalla sfida storica, allora si distende anche la possibilità di orizzonti alternativi, di nuove affermazioni che attendono all’ombra dei grandi avvenimenti. L’imprevisto è dietro l’angolo e non è detto che operi secondo i valori imperanti”.
Si agisce, dunque, per raccogliere dalle culture della contrapposizione tutti gli strumenti che possano servire quanto prima, al fine di formare l’idea che metta in moto l’azione.
Fuori dall’intellettualismo – in cui spesso langue la nostalgia impolitica dell’altrove: ricordate il Mitomodernismo di Stefano Zecchi? – il pensiero e la cultura diventano con “Polemos” argini di raccolta della volontà attiva, giacimenti di eventi e riserve di futuro.
“Polemos” concepisce l’attimo presente come una sonda nel primordiale, per estrarne valori d’attualità e di lotta, interiore come esteriore. La riflessione prepara l’azione, il campo è aperto alla vera e grande rivolta dei cuori e dei caratteri:
“Lo scavo nel pensiero antico e la lettura dell’attualità attraverso il mito non sono sterili esercizi intellettuali ma devono fornire gli assi semantici su cui configurare una presenza nel mondo, un’azione concreta, che non si lasci influenzare dal mono-pensiero conformista”.
L’ambizione è grande, così come è bene che sia. Materiali ideologici della dirompenza adatti a questa Hybris sacrosanta se ne trovano ovunque negli sterminati territori della cultura europea. Tutto il meglio e il grande è da questa parte, i padroni della sovversione pluto-quacchera non sono sorretti, invece, se non da sfatti brandelli di incultura massonica e cosmopolita.
Nella macina della tecno-scienza il proscritto jüngeriano che illumina la reazione riconosce l’antico “fuoco creativo che arde da millenni e che ha mosso i primi passi presso i popoli indo-europei”. Nessun timore di essere schiacciati dalla monoliticità del gigantismo tecnocratico, che sta facendo a pezzi popoli e nazioni nella paralisi generale di ogni contrasto. I giovani che guidano la resistenza culturale-politica di “Polemos” agitano strumentazioni arcaiche, amano l’ancestrale e lo ritrovano incastonato nel più grande futuro, verso il quale guardano fermi e sicuri. Tra di loro, c’è chi, come Francesco Boco, con ampiezza di filosofo heideggeriano, ha già scritto parole diritte, alla Spengler, circa la necessità bruciante di recuperare l’identità sul ciglio del baratro, e con essa l’origine. I popoli devono ritrovare la radice, ognuno la propria origine, che è vita, diversità, ricchezza, nobiltà, da opporre al disonore dell’ammassamento mondialista:
“L’origine è allora inesauribile. Può venire dimenticata, obliata, sostituita, deformata, ma può sempre ricomparire nel divenire rigenerando la storia. In ogni momento si racchiudono il progetto futuro e la ricchezza vitale del passato nella decisione presente”.[1]
Voler mettere bocca nei progetti di sociobiologia dell’avvenire, negli avvenimenti legati alla bio-tecnologia, opponendo argomenti e forza mentale alla dittatura sanitario-digitale che si appresta alla spallata finale per disintegrare i popoli; cercare di inserirsi nella dinamica del dominio oligarchico internazionalista; ostinarsi a cercare di capire se il mondialismo sia un macigno oppure una bambola gonfiabile: tutto questo impegna gli oltranzisti del conflitto creativo a considerare la distruzione programmata dell’Europa qualcosa di più di un dramma epocale, qualcosa di meglio, cioè un’occasione. Dato che il movimento crea le possibilità, è nel movimento e nel sommovimento che la scelta minoranza radicale individua il balenare della possibilità. Questi ribellistici raccoglitori di idee conflittuali, come fa un altro dei redattori di “Polemos”, Andrea Anselmo, si ricordano volentieri che Jünger suggeriva di “utilizzare ai propri fini le dinamiche anche più parossistiche della contemporaneità e piegarle per creare spazi di autonomia e di libertà”. Libertà di crederci, di agire, di far muovere finalmente le ali terribili della famosa farfalla confuciana.
Luca Leonello Rimbotti articolo tratto da Centro Studi Italicum https://www.centroitalicum.com/
[1] Francesco Boco, “La catastrofe dell’Europa. Saggio sul destino storico del Vecchio Continente”, Idrovolante Edizioni, 2018, p. 130.