Lo Yoga della possanza
Mentre tutto intorno crolla, restare integri.
L’aristocrazia comporta etimologicamente il riferimento al “kratos” ellenico, la forza. Così come il termine “Ar” ci riporta ai migliori o e persino ai “più adatti”.
Adatti a cosa? A darsi alla macchia in situazioni di “caccia alle streghe” nei confronti del dissenso ideologico o del pensiero non allineato, oppure adatti a sopravvivere alle emergenze climatiche di un pianeta stuprato dalla follia consumistica e che comincia a ribellarsi – pensiamo a siccità, alluvioni, terremoti.
Per questo realtà legate all’allenamento funzionale e allo sport da combattimento sono state affrontate con costanza nella prospettiva delle analisi raccolte da Polemos, nei precedenti volumi.
Ma ogni fenomeno si presta ad una interpretazione e lettura più profonda e originaria.
Quello che per l’uomo ordinario è soltanto esercizio fisico, per l’uomo che si allontana dal conformismo della massa, che orienta la propria vita verso una visione organica e integrale, diventa disciplina dello spirito, yoga, unione quindi di corpo, anima e spirito.
Nel celebre commento di Julius Evola all’opera di Ernst Junger Der Arbeiter si affronta il tema di quanto disciplina del corpo e disciplina dello spirito non siano assolutamente in antitesi dualistica:
«[L’Arbeiter] È destinato a riscoprire una grande verità andata perduta, ossia che vita e culto fanno tutt’uno. […] Perciò ogni dualismo speculativo, al tipo [dell’Arbeiter] apparirebbe come una specie di eresia o di alto tradimento spirituale. Dal dualismo dice lo Junger, derivano tutte le antitesi di potenza e di diretto, di sangue e di spirito, di idea e di materia, di amore e di sesso, di anima e di corpo, di uomo e di natura, di spada spirituale e spada secolare, antitesi appartenenti ad una lingua che dovrà essere sentita come straniera. Secondo il nostro autore [lo Junger] coteste antitesi alimentano ancora un interminabile discorso dialettico, hanno una azione corrosiva e alla fine conducono al nichilismo perché con esse tutto si trasforma in via di evasione».
D’altro canto:
«I poteri non si conseguono portando una veste (da brahmano o da asceta) né dissertando sullo Yoga, ma solo la pratica infaticabile conduce al compimento. Su ciò non vi è dubbio». Hatha Yoga Pradipika, I, 66
Le direzioni esistenziali di Cavalcare la Tigre e la forma quasi ascetica de Der Arbeiter di Jünger trovano dunque un ennesimo campo di applicazione nell’addestramento fisico: utilizzare le attuali forme di fitness non in senso dissolutivo – ovvero meramente estetico o come intrattenimento – ma come percorso rettificativo rispetto alla vita sedentaria. Trasformare il veleno (le moderne forme di fitness e agonismo) in farmaco, ancora una volta!
Pensiamo alle descrizioni dei corpi scolpiti dei commilitoni di Ernst Junger, che la guerra ha forgiato e privato di orpelli inutili. Pensiamo ai racconti di guerra di Pio Filippani Ronconi, dove l’azione bellica era manifestazione esteriore di un percorso interiore di analogie con le divinità, con le ascendenze storiche e con pratiche di yoga tantrico, talora includenti percorsi di sessualità mistica. Pensiamo alle contemporanee forme di aggregazione marziale che si stanno sviluppando in tutto il mondo “occidentale” all’insegna di gruppi barbarici pronti a sfidare “l’impero del nulla”, come lo ha definito l’autore americano Jack Donovan, in prima fila in tali esperienze “tribali”.
Meglio ancora se tali pratiche di addestramento si svolgono all’aria aperta e in contesti tali da risvegliare il residuo eroico ancora presente nel sangue delle genti europee (proprio quel sangue veicolo di influenze superiori lodato persino da Meister Eckhart): l’arrampicata, l’alpinismo, l’escursionismo su lunghe tratte o per dislivelli significativi.
Non più “evasione estetizzante” ma marce estenuanti, privazioni, notti in bivacco a dormire su panche lerce.
Portarsi al limite, verso esperienze di quasi morte: le quali in questo contesto potrebbero assumere – fatte le debite proporzioni e solo in determinati risvolti realmente “estremi” – ad esperienze di “mortificazione”, non dissimili da quelle di una ascetica “morte iniziatica”.
Non è questa d’altro canto la via indicata da Wotan/Odhinn nell’appendersi per nove giorni e nove notti digiuno per scoprire con un urlo estatico il segreto delle Rune ?
Concetti simili sono palesati dal noto film, ispirata all’opera di Howard, “Conan il Barbaro”.
In questo senso anche l’umiliazione dovuto al fallimento in contesti agonistici o di combattimento possono propiziare la morte del piccolo ego, la distruzione di immagini di superomismo meramente autoreferenziale, incapace di superare l’ordalia del confronto in un contesto impietoso, privo di attenuanti intellettualistiche.
Non a caso abbiamo provato a mostrare una via di questo tipo con l’interpretazione dello scritto sul film e il libro “Fight Club”.
Di fronte alla nuda roccia o dopo un pugno ricevuto, che ci scuote e ci “fulmina” la mente, quando si cade rovinosamente, o quando ci si porta alla nausea in un circuito di condizionamento cardiaco: ecco che l’ego autoreferenziale deve arrendersi all’evidenza della sofferenza, della propria inadeguatezza, del fatto che è ancora necessario impegnarsi e versare altro sangue, altre lacrime, altro sudore.
Il passaggio da un mero tradizionalismo da “film mentale” o “da tastiera” ad una pratica costante e autenticamente devastante diventa così un passaggio obbligato per far fronte alle sfide della contemporaneità quali il progressivo erodersi del contesto sociale, il sorgere di gang allogene violente e spesso armate, così come il persistere della criminalità diffusa di ascendenza autoctona.
Mai più mera ostentazione muscolare, mai più ostentazione nozionistica da sesso degli angeli: è ora di far sorgere uomini completi, organici, capaci di unire spirito e corpo in un tutto che sia non solo forte, ma soprattutto pericoloso.