MIGHT IS RIGHT: RIPRENDERSI LA FORZA
di Michele
Recentemente pubblicato per la prima volta in italiano da Polemos – forgia editrice, Might is right è stato a lungo una sorta di mistero per il lettore italiano. Uscito fra le nebbie della Chicago di fine ottocento, ha qualcosa di dirompente, come una folgore che d’improvviso squassa il cielo. Questo piccolo gioiello è anche un mistero in sé, dalla sua comparizione su fogli autoprodotti e semiclandestini, all’identità del suo autore, quel Ragnar Redbeard che è un eteronimo che mischia sapientemente saghe norrene (Ragnarr Loðbrók vi dice qualcosa?) e l’imperatore Federico Barbarossa.
Tutto ciò contribuisce a creare un alone di leggenda intorno al testo, così come contribuisce il fatto di essere una sorta di libro maledetto, dal contenuto osceno, immorale, e scandalistico. Scritto in una lingua ricercata, potente e arcaicizzante, accompagna a questo una bellezza dirompente, che ne accresce il fascino oscuro. Ma il libro ha anche una sua dignità speculativa. Il tema di Might is right è chiaro, ed è una strenua difesa della forza contro i meccanismi livellanti dell’ideologia egualitaria.
Redbeard fa della forza il cardine del proprio pensiero perché ha una visione del mondo pretammente conflittuale, in cui morale e giustizia sono solo pericolosi paramenti: “il mondo naturale è un mondo di guerra; l’uomo naturale è un guerriero; l’ordine naturale è zanna e artiglio”. Non esiste nient’altro che vittoria e sconfitta, forza e debolezza. Qualsiasi idea di un bene astratto che non corrisponda a questo dato di fatto conduce all’errore. Redbeard declina tutto questo in un senso naturalistico, cioè materiale, trovando conferma di ciò nel darwinismo sociale.
Com’è facile aspettarsi, il might di Redbeard rassomiglia al “Polemos padre di tutte le cose” eracliteo, anzi assurge a principio primo della manifestazione: “è con la forza che tutte le cose esistenti si evolvono, si mantengono perpetuate. La forza aggrega e separa gli atomi che costituiscono questo universo cosmico fatto di menti e materia. Li integra nelle forme proprie alla natura organica e inorganica. La disintegra ancora e ancora. […] La forza è letteralmente nel tutto, attraverso tutto, al di sopra di tutto”. La traduzione di might con «forza» è abbastanza giustificata, poiché restituisce quella dimensione fisica e di dominio che nel testo è prevalente. Tuttavia, non riesce a rendere l’ampiezza del vocabolo nella sua interezza, che potremmo mettere in relazione a «potenza» ed etimologicamente a «magia». Più significativa è la parentela di «might» con il tedesco «Macht», da cui deriva il Wille zur Macht nietzscheano, cioè la volontà di potenza.
Quest’ultima affinità fra i due vocaboli è curiosamente analoga a quella fra i due autori, soprattutto con il Nietzsche della Genealogia della morale. Non è forse nemmeno un caso che il giovane Mussolini, all’epoca della sua militanza socialista, scrisse un breve testo sul filosofo tedesco dal titolo La filosofia della forza. Le similitudini si possono ritrovare soprattutto nella pars destruens, dedicata allo smantellamento pezzo per pezzo dell’ideologia egualitaria. Sia Nietzsche che Redbeard vedono in essa una sorta di sovversione dell’etica aristocratica, ossia di un’etica della forza e del sì alla vita, sovversione che trova le sue radici nell’ebraismo e nel cristianesimo e che si secolarizza nella modernità tanto con l’ideologia democratica che con quella socialista.
Specifico di Rebeard è l’accento marcatamente individualistico e materialistico della forza, così come il culto della proprietà privata e della possibilità di difesa personale, contro uno Stato che è sempre visto come qualcosa di nemico: “la libertà è definibile, in tutta onestà, come uno stato di completo autodomino mentale e fisco (che include il possedere anche le armi per la propria autodifesa), e una netta indipendenza di tutte le forme coercitive o restrittive”. Tematiche che potremmo ritrovare in un libertarian qualsiasi dell’America dei nostri giorni.
Altro aspetto degno di nota è come Redbeard lega la sua idea di forza alla sessualità, proponendo una spietata riscoperta della virilità, in cui la donna con la sua bellezza e con la sua intelligenza seleziona instancabilmente i più forti, i più audaci, i più coraggiosi, di cui s’innamora anche al di là della morale e del buoncostume. A credere nei bei discorsi, negli infiacchimenti del costume, sono solo gli sciocchi che giustamente non hanno nemmeno diritto a riprodursi.
Abbastanza peculiare è anche la dialettica che Redbeard istituisce fra forti e deboli. Dialettica che è un certo modo all’opposto di quella hegeliana fra servo e padrone, in cui il servo, ovvero colui che per debolezza e paura della morte cede la propria indipendenza, proprio per la propria subordinazione ha un rapporto diretto e fattivo con il mondo attraverso cui giungerà all’autocoscienza, cioè alla liberazione, cosa che paradossalmente al signore è negata. In Redbeard i deboli sono colpevoli della propria posizione ed anzi “non c’è bisogno di imporsi con gli inferiore, poiché non vedono l’ora di obbedire”. La superiorità dei forti è legge di natura, com’è legge di natura che chi è superiore sia il più forte. Una società che riconoscesse e seguisse questa legge di natura vedrebbe aumentare progressivamente il numero dei forti e diminuire quello dei deboli, migliorandosi. Il fatto che vi siano i forti e i deboli presuppone non solo una differenza fra gli uomini, ma anche un conflitto, tant’è che “le aristocrazie si sono sempre originate dalla guerra”.
Se i forti sono destinati al comando perché “la vittoria santifica”, viene da chiedersi per quale motivo ciò non si verifica più nella società attuale. La sovversione della forza è opera di una pletora di retori e imbroglioni, che grazie alla persuasione dei loro discorsi sono riusciti a creare uno stato di cose innaturale: “tutti i dogmatismi – e le religiosità – morali, sono ostacoli concreti all’evoluzione della virilità superiore […]. L’uomo ‘morale’ è un debole antagonista del generalato amorale. Permette scioccamente a loquaci personalità (con qualità percettive più acute) di esercitare su di lui un’illimitata autorità; con numerosi pretesti plausibili, e deliberatamente, lo saccheggia delle sue proprietà”. Una morale che è quindi in contraddizione con la naturalità della forza e del suo diritto, ma che ha facile presa sulle masse perché offre una visione rassicurante, consolatoria, falsamente giusta.
Questa innaturaltià provoca un declino della stessa sostanza umana. Infatti, una società che giustifica la debolezza la fa proliferare. L’universalismo dei diritti, la democrazia, l’egualitarismo, non riconoscendo il diritto dei forti ad essere tali, livella verso il basso l’umanità stessa, sprofondandola “verso abissi di povertà, catene e vergogna”. Così la morale di un bene astratto, che non si riconosce nella forza, ha il doppio scopo di irretire le masse, che rimangono schiave, di incatenare a leggi innaturali i forti, e mantenere al potere i detentori non della forza conquistatrice ma della persuasione. Questo “Vangelo dell’Eguaglianza” ha, in altre parole, sedotto il popolo “al sentimento della felicità e della sicurezza fino al momento in cui, i loro ceppi e le loro catene non furono adeguatamente forgiate, lucidate e ben rivettate”.
Per concludere, se, come sostiene Locchi, la contraddizione principale dei nostri tempi è quella fra tendenze sovrumaniste e quelle egualitarie, Might is Right riconosce istintivamente in quale dei due campi schierarsi, portando dalla sua diversi spunti interessanti e alcuni limiti, legati soprattutto al suo individualismo e al suo materialismo, il tutto con uno stille che si abbatte, di frase in frase, come un maglio sul lettore.
dal sito www.bloccostudentesco.org
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