Note su libertà e apolitìa in Evola
di F.B.
Se si volesse individuare il tema centrale di tutta l’opera del filosofo romano Julius Evola, potrebbe essere con tutta probabilità quello della libertà. La ricostruzione da lui operata dei caratteri tipici delle civiltà tradizionali si propone infatti di rendere evidente al lettore quei principi di normalità andati perduti nel corso dei secoli e quasi scomparsi con l’avvento della modernità.
Nel caso ad esempio di una delle sue opere più importanti, Il mistero del Graal[1], il tema della sovranità integrale viene connesso alla leggenda di Re Artù e al simbolismo imperiale ghibellino. La figura del sovrano, tramandata dal mito del Graal e ad esempio nel Parsifal, deve sempre affrontare una condizione di corruzione e decadenza, che può essere rettificata soltanto attraverso un processo di purificazione. È proprio su questo lato esistenziale che la filosofia evoliana indica una via che può trovare declinazioni nella vita quotidiana. Per divenire re, il cavaliere dovrà prima liberarsi delle passioni mondane, semplificare ogni aspetto della propria esistenza, fino a raggiungere la piena sovranità su di sé. Questo è l’uomo che Evola chiama “uomo differenziato” o “uomo integrale”, cioè quell’uomo veramente sovrano che ha saputo consolidare la sua autorità su se stesso, sui propri bassi impulsi. «Evola ha ricordato in più occasioni che il primo compito che si impone a quello che egli ha chiamato l’“uomo differenziato” è quello dell’unificazione interiore, che apre all’equilibrio e all’armonia. Questa unificazione deve farsi attraverso la scoperta sperimentale della tendenza dominante e la trasformazione di essa in un imperativo etico che regga tutta l’esistenza»[2]. Questa riconquista di un ordine interno necessita per Evola di una riaffermazione di quei principi verticali, gerarchici, virili e sacrali che erano la norma nelle civiltà tradizionali. Solo attraverso la riscoperta di un moto ascendente di tutto l’essere umano si dà per il filosofo romano autentica libertà, intesa, si badi, come l’antica libertas. Pertanto il potere di comandare, l’imperium in senso proprio, è in primo luogo quello su se stessi, all’insegna della nota massima «chi non sa comandare se stesso deve obbedire»; all’interno di un ordinamento gerarchico interiore di chiara ascendenza platonica.
Perfettamente coerente con le posizioni sin qui riassunte è l’interesse nutrito dall’Autore per le dottrine orientali, nello specifico per il taoismo cinese. Julius Evola nel 1922 curò e tradusse un’edizione del Tao Te Ching, opera che con tutta evidenza deve aver fornito importanti spunti alle sue successive posizioni dottrinarie. Il libro di Lao Tse è un profondo trattato che intende aprire alla comprensione della Via, il solo modo grazie al quale l’uomo può agire secondo Virtù. Cos’è la Via? La Via è il non-essere. Cos’è allora la Virtù? La Virtù è assenza.
Con non-essere il Tao Te Ching intende tutto ciò che non è materiale, tutto quello che non è influenzato da un’esistenza mondana. La Via è dunque il distacco dalle passioni mondane, è il non-agire, è lo svanire al mondo. Questo ritrarsi della Via è però il suo sommo mostrarsi, perché solo così essa può realizzarsi nella Virtù dell’uomo Perfetto. Costui non agisce per bisogno o per ambizione, non si lascia trascinare dai propri impulsi, ma è fermo in se stesso, immutabile e indifferente nella sua assenza di passionalità. È pienamente centrato, controlla ogni sua facoltà.
D’altro canto è noto il continuo riferimento dell’autore alla Bhagavad Gita, già parte del Mahabharata, nella quale il cosiddetto Karma Yoga, lo Yoga dell’azione esente dalla preoccupazione per il risultato, trova la sua massima espressione. L’agire impersonale, scevro da voluttà e dalle costrizioni del desiderio, massimamente espresso dagli insegnamenti del dio Krishna al disorientato guerriero Arjuna, agisce come costante sottofondo del processo di liberazione dell’azione dal desiderio.
Così al tempo stesso, nel messaggio del mistico cristiano Meister Eckhart, è da rintracciarsi quel distacco assoluto che necessariamente rende simili alla divinità e addirittura, come emerge nei noti Sermoni tedeschi, pone il mistico al di là e al di sopra persino della divinità, della quale si arriva paradossalmente a non avere più bisogno. Noto è d’altro canto lo scritto apocrifo attribuito a Eckhart dei cosiddetti Insegnamenti di sorella Katrei, tradotti significativamente in Italia con il titolo Diventare Dio.
Tutte suggestioni molto forti che contribuiscono ad arricchire spiritualmente il percorso di Evola.
«Dunque l’uomo deve superarsi, deve farsi Perfetto ossia “Individuo assoluto”, poiché allora troverà in sé stesso gli elementi per cui potrà stabilirsi una reale conoscenza; conoscenza che non sarà più un che di estrinseco, come nella scienza della discorsività umana, ma sarà vita di Gnosi; perché non esprimerà altro che la coscienza stessa del Perfetto che è tutt’uno colla radice d’ogni reale»[3].
L’Individuo assoluto a cui fa riferimento Evola è la prima configurazione filosofica di quello che più tardi che chiamerà “uomo differenziato”, ma i caratteri fondamentali non cambiano. Se nei termini del suo idealismo magico l’individuo poteva farsi atto puro solo attraverso una radicale frattura con tutte le influenze del mondo circostante, rientrando così in possesso del suo autentico Io, la realizzazione dell’uomo differenziato richiede una netta rottura con il mondo moderno, un rifiuto di tutti i suoi valori e delle correnti ideologiche, spirituali, sessuali nel nome di un richiamo attivo ai principi della Tradizione primordiale.
Julius Evola tentò di fornire nelle proprie opere più “politiche” quelli che considerava i lineamenti fondamentali per una militanza ordinata tradizionalmente. Negli ultimi anni della sua vita, deluso dagli uomini e dubitando delle possibilità storiche, tentò di tratteggiare una via individuale da seguire per coloro che, viventi in tempi di decadenza, da essa non volevano farsi trascinare. Nacque così Cavalcare la tigre[4], opera fraintesa e talvolta ridotta a qualche frase a effetto, ma che si pone in continuità con le prime posizioni filosofiche dell’Autore, radicalizzandole e contestualizzandole nel momento storico contingente. Egli si rivolge a coloro che sappiano distaccarsi dal piano dell’esistenza puramente orizzontale e sappiano invece rivolgere la propria tensione alla dimensione trascendente, a quella verticalità che impone in primo luogo un ordine interiore e, in prima battuta, etico. «La realizzazione etica è il primo stadio dell’unificazione dell’io, quello che consiste, dice Evola, nel darsi una legge, nel “far coincidere il proprio volere col proprio essere”. È l’accesso all’autonomia»[5]. Darsi una legge significa in ultima istanza rifiutare i legacci del mondo circostante sapendo però di doversi fare carico delle conseguenze; si tratta insomma di una scelta radicale per una libertà totale, ontologica e antropologica, che non ammette titubanze.
Disgustato dall’individualismo senza personalità, Evola si richiama al realismo eroico jüngeriano rappresentato nell’Operaio, figura che può aprire prospettive di una “nuova oggettività”. Nella realtà alienante e disgregante del paesaggio d’officina, in un mondo meccanizzato e in cui gli uomini diventano lavoratori anonimi di una catena di montaggio, Evola intravede in questa condizione di estremo pericolo anche la possibilità di una distruzione di tutti quei sentimentalismi e psicologismi che egli disprezza e che potrebbero allora essere rimpiazzati da freddezza, chiarezza, serietà e purezza, cioè da un nuovo realismo attivo. Il legame di Evola con la figura “epocale” dell’Operaio è nota e conferma le attitudini spirituali che Evola stava assumendo sin dal primo dopoguerra. I fondamentali di Cavalcare la Tigre si possono rintracciare parimenti nell’opera Lo yoga della potenza, dove il sadhana tantrico diventa la corrispondenza trascendente all’attitudine di fare del limite una potenza, di convertire la velenosità del Kali Yuga in potenzialità di trascendenza e quindi in ultima analisi di libertà, che nella Via della Mano Sinistra diventa addirittura assoluta libertà e deificazione. Questi temi non devono stupire, sono presenti sin dalle teorizzazioni artistiche di Evola, percorrono il suo periodo magico operativo, si intersecano con la figura dell’Operaio e maturano compiutamente in Cavalcare la Tigre e Lo Yoga della Potenza.
L’uomo differenziato però non si isola, non evita il confronto con il mondo circostante, ma, come suggerito dal titolo, cerca di cavalcare la belva senza farsi da essa disarcionare, in attesa di poterla domare. In altri termini, Evola raccomanda di «fare di veleno, farmaco», cioè di accettare la sfida con il distacco interiore necessario, senza farsi influenzare e corrompere, ma agendo come colui che non agisce, senza aspettative ma senza alcuna remora.
L’apolitìa evoliana, spesso considerata come il rifiuto di ogni impegno politico, è allora da comprendersi come la massima espressione della libertà dell’uomo. L’apolitìa, chiarisce Evola, «non crea dunque nessuna speciale pregiudiziale nel campo esteriore», ma raccomanda invece un atteggiamento centrato, saldamente autonomo e oggettivo. «Si è già detto che il superamento positivo del nichilismo consiste appunto nel fatto, che la mancanza di senso non paralizza l’azione della “persona”. Esclusa, in termini esistenziali, sarà solo la possibilità di agire essendo presi e mossi da un qualsiasi mito politico o sociale dei nostri giorni per aver riconosciuto serio, significativo e importante quel che presenta tutta la vita politica attuale. Apolitìa è la distanza interiore irrevocabile da questa società e dai suoi “valori”; è il non accettare di essere legati ad essa per un qualche vincolo spirituale o morale. Ciò restando fermo, con un diverso spirito potranno anche essere esercitate le attività che in altri presuppongono invece tali vincoli»[6].
Evola dunque non dice di isolarsi dal mondo, di non operare in esso nei modi richiesti dalle circostanze[7]. Egli raccomanda invece un atteggiamento interiore radicalmente chiuso a ogni influenza esterna, afferma cioè che solo grazie a un’integrità spirituale, attraverso un ordine interiore trascendente, l’uomo può mantenersi essenzialmente libero dalle correnti spirituali del mondo contemporaneo. Così egli potrà agire esteriormente restando però immobile dentro di sé; agirà senza agire, muoverà senza essere mosso. Sarà pienamente sovrano di se stesso.
[1] J. Evola, Il mistero del Graal, Ed. Mediterranee, Roma 1986.
[2] P. Baillet, Julius Evola e l’affermazione assoluta, Edizioni di Ar, Padova 1978, p. 31.
[3] J. Evola, Introduzione in Lao Tse, Tao Te Ching, Mimesis, Milano-Udine 2017,p. 11.
[4] J. Evola, Cavalcare la tigre, Ed. Mediterranee, Roma 2000.
[5] P. Baillet, op. cit., p. 76.
[6] J. Evola, Cavalcare, op. cit., p. 152.
[7] Cfr. Aa. Vv., Tradizione e/o nichilismo?, Ed Barbarossa, Saluzzo 1988.