PROMETHEICA: la via dell’azione
Nel deserto inintelligente e nel silenzio delle culture spente dalla brutalità del consumo, tendiamo le orecchie e udiamo il grido di contrasto. Qualcosa che richiama alla mobilitazione. Che con parole antiche ne forma di nuove. Contro il sostanziale immobilismo del presente, che non esce dalle ipocrisie intorno alla psico-pandemia o alla semi-guerra, e che veicola illusori modelli di un dinamismo da ratti, occorre radunare idee, infuocarle vulcanicamente e gettarle incandescenti tra le mani dei nuovi artieri della volontà europea. Se ancora, da qualche parte, ve n’è una, ma che non tradisca, che non abbia padroni, che voglia solo se stessa.
Al di sopra dei fatti, c’è la speranza di forgiare menti e caratteri in grado di guardare dall’alto gli eventi. Non è neppure importante capire davvero ciò che accade, poiché accade tutto dentro al circuito del potere finanziario e cosmopolita. Voler troppo capire il nemico, dopotutto, significa anche accettare di somigliargli, di farsi infettare dalle sue eruzioni cutanee.
Tuttavia, se la cultura oggi in Occidente/Europa non esiste, esiste però una controcultura. E’ a questo mulinare del pelo d’acqua che bisogna guardare. Al di sotto, un qualche animale ideologico nutrito di abissi sta forse per emergere.
Se prendiamo in mano la rivista “Prometheica”, che ama definirsi “rassegna di studi sul sovrumanismo, la tecnica e l’identità europea”, comprendiamo subito che da qualche parte corre una barbara voglia di contrasto. Si agitano parole di affronto, si irride il cosmo di finti terrori nel cui laboratorio è fatto languire l’uomo-massa, si constata con atto volontarista che la società attuale, densa di menzogne, non è che un cadavere decomposto in liquami psichedelici.
Un gruppo di intellettuali da battaglia si è prefissato di fornire armi di opposizione a quanti accettino di porre mano alla rivolta. E proprio di mano, si tratta. Concepire l’azione come l’elemento simultaneo del pensiero. In questo modo, possiamo immaginare l’oltrepassamento del presente e l’erezione di una macchina oppositiva facendo ricorso alla totalità delle forze mobilitabili dall’uomo di contrasto. E proprio nel senso con cui una volta Heidegger richiamava il significato della mano: “il pensiero è l’agire in ciò che vi è di più proprio, se agire significa prestare la mano all’essenza dell’essere”. Nell’epoca in cui si impara prima a scrivere sulla tastiera e poi a parlare, il simbolo esclusivo della mano – come organo padroneggiante la techne primordiale – cade a proposito.
Il primo numero della rivista “Prometheica”, uscito nel Solstizio d’Inverno del 2021, recava un Manifesto del prometeismo. In esso si presentava lo spettro ideologico della nuova sovversione. Pochi punti essenziali, alla maniera dei manifesti novecenteschi.
Già al punto primo si chiarivano le idee: la tecnica, in tutte le sue declinazioni, anche di intelligenza artificiale, di ingegneria genetica, di robotica etc., viene non solo accettata, ma sospinta al sempre-oltre. Gettarsi a precipizio nelle applicazioni tecniche e tecnologiche senza i freni inibitori degli oscurantismi monoteistici e moralistici: questa la nuova frontiera di chi raccorda i primordi dorici della nostra civiltà al suo destino faustiano, la condanna a gestire nelle più dense proporzioni tutto quanto è sapere, azione, mito, rito, simbolo.
In questo e negli altri dieci punti del Manifesto si è infatti illustrata la volontà superomistica (prometeica, appunto) di oltrepassare l’indecisionismo e la paura immobilista buttandosi a capofitto nella postmodernità radicale. Questi nuovi argonauti dell’ultraismo vedono il nostro destino nell’accelerare evolianamente il processo di disfacimento in cui si torce la presente civilizzazione, sospingendo fino all’illimite le possibilità di allevare con tutti i mezzi l’uomo nuovo invocato senza successo dalle rivoluzioni del passato.
E’ costui l’Uomo potenziato, e vediamo se almeno questo funziona.
Servitore degli annunci nicciani, realizzatore dei sogni ad occhi sbarrati che i salienti della nostra storia alta custodisce: la tenuta oltre, il gettarsi al di là, una fermezza di vortice, ed ecco che l’uomo disegnato dagli intellettuali spartani di “Prometheica” lascia intravedere i suoi contorni.
L’allevamento dell’uomo nuovo nasce essenzialmente dal conflitto, quel ribollire di brodo primordiale in cui le creature superiori si formano estraendosi dal magma e divenendo un gigantesco organismo biopolitico in cui la bestia e il dio si fondono. Da lampi di sperimentazione avveniristica sorge l’individuo che assomma su di sé tutte le forme del passato: l’anarca, l’unico, il ribelle, lo scienziato, il mistico, il soldato politico: quanti orizzonti non sono stati mai raggiunti? E quanti ancora ne devono sorgere ad ogni alba, prima di vedere tracollare la civiltà dell’ammasso liberale?
Il Manifesto di “Prometheica” vuole l’Europa dei forti, la terra “in cui il fuoco della tecnica ha bruciato con più splendore”. E quindi un imperialismo europeo spaziale, una “sovranità tecnologica totale”, un bio-comunitarismo che osservi e valuti con naturale freddezza anche i mondi perigliosi della genetica, magari per raddrizzare le demografie storpiate dal benessere.
La padronanza dello spazio tellurico in cui si deve compiere la rivoluzione faustiana non lascia campi in abbandono: la sovranità e l’autodeterminazione vengono rivendicati come assoluti. Tutto quanto è techne deve essere messo a disposizione dell’uomo nuovo: dall’ecosistema ai metodi di convivenza, dalla grande politica alle nuove risorse. La battaglia che si preconizza è tra l’infimo uomo del presente, eterodiretto dalla muta degli usurai senza terra, e il grande uomo del futuro prossimo, potenziato da una volontà organizzata e libera.
L’organico della vita biologica si sposa al potente macchinario di un cervello che imposta, vuole e crea; ad esso si affianca l’inorganico, fattosi evento e filosofia: non fu sempre la civiltà una fausta combinazione fra mano dell’uomo e natura, fra organismo che cresce e strumentazione che potenzia? E non è forse la cultura, da cui tutto scaturisce, per l’appunto una coltivazione, da cui tutto fruttifica? Senza la correzione tecnica della volontà umana, la natura, lasciata a se stessa, sprigiona crudeltà, assurdo, contraddizione; è allora che tutto scompostamente vigoreggia in grumi di irrisolti avviluppi senza logica, precipitando nel caos. La tecnica faustiana, di cui l’uomo europeo – nel bene e nel male – è somma eccellenza, è ordine, disciplina irrigua di bisogni e sperimentazione attese, ciò che non offende ma lusinga il dio; è complicità con la creazione, è sfida alla morte.
Ha scritto Francesco Boco che “l’essere umano si espone quindi al rischio supremo, espone la sua natura manchevole e in potenza agli elementi e alle avversità e accetta la sfida epocale di divenire se stesso o perire”. Sulla corda nicciana in cui si tendono il non più e il non ancora, l’uomo prometeico non deve in verità né accelerare né ritardare la dissoluzione. Bensì “trascenderla”. E’ una parola: come si fa? “La modernità va trascesa – scrive Adriano Scianca -, cioè attraversata, anche in ciò che essa ha di più fittizio e alienante, ma con un attraversamento che è sempre superamento, lasciando i feticci dell’umanesimo occidentale nello specchietto retrovisore”.
Un nuovo nichilismo attivo? E’ un fatto che questo modello di modernità insudicia solo a guardarlo, combatterlo significa anche imbrattarsi delle sue brutture.
Giocando sui pericoli che si corre maneggiando gli estremi della tecnica e della tecnologia, si vive pericolosamente, certamente, si è a contatto col rischio radicale. Come, ad esempio, accade a chi perlustri i meandri dell’immaginativa: l’eroe robotico nasconde le possibilità di un “dio tonante”, come ha scritto Carlomanno Adinolfi nel volume secondo di “Prometheica” (Equinozio di Primavera 2022), seguendo il classico binomio giapponese tradizione/innovazione. Ma tale in “via erculea” si nasconderà pur sempre, per l’uomo massificato, un insieme di spaventevoli pericoli. Dunque, un’aristocrazia di supremi, insensibile al calcolo e al rischio? Gli indomabili marinettiani? Un futurismo oltresociale e ultravitale?
Tuttavia, esiste un pericolo che non è avvertito solo nell’animo basso dell’individuo indifferenziato. L’uomo massificato non è il solo a custodire il fiuto dell’insidia che si cela dentro l’illimite. Una volta liquidata la società usuraria dei settari cosmopoliti, attraverso chissà quale delle catastrofi possibili, l’uomo faustiano avrà infatti davanti a sé, ancora una volta, untitanico enigma da sciogliere. Quello che divise Alessandro, divoratore di spazi ed esperimenti, dai suoi generali macedoni, desiderosi alla fine di un ulisside nòstos.
I prometeici di oggi e di domani dovranno realizzare le impossibili nozze del finito con l’infinito.
da www.centroitalicum.com