Tecnoprimitivismo – un’introduzione
Pacta sunt servanda, recita il ben noto principio giuridico-consuetudinario posto a fondamento delle entità sovrastatuali[1]; e già ad una analisi superficiale se ne coglie l’intima sostanza formale e fenomenologicamente derivante dallo sviluppo organico di una morale.
Impossibilitati a disporre di un apparato dedicato a far rispettare la legge inter-statuale, i singoli governi nazionali sono costretti a delimitare e decurtare la sfera di agibilità della loro sovranità e a demandare a strutture create ad hoc, come l’ONU o le Corti Internazionali, la composizione di eventuali fratture dell’armonia politica. Ma non avendo accesso ad un potere diretto, la tutela è comunque dimidiata; come è sottolineato dagli studiosi del diritto internazionale “alla base di una norma non scritta vi è spesso una imposizione, ed il ruolo delle grandi potenze è sempre un ruolo di primo piano nella formazione del diritto internazionale; ma la norma intanto esiste in quanto si traduce nei comportamenti reiterati degli Stati, accompagnati dal convincimento della doverosità sociale dei comportamenti medesimi”[2], è difatti di piana evidenza che volendo sostituire alla intrinseca cogenza della norma tipizzata il valore metafisico del precetto religioso, di diritto naturale, vincolante in forza di puro convincimento individuale, si cerca di determinare una supplenza a quella che è una gravissima carenza.
Diritto senza apparato burocratico, istituzionale, norma priva di momento repressivo ed incapace di autoapplicazione sono vuote parole destinate a liquefarsi come rugiada nel caldo sole del mattino; non a caso, il diritto interno, che poggia le sue fondamenta su una solida struttura istituzionale centralizzata e sulla possibilità che il cittadino sia chiamato a rendere conto del pactum societatis in ogni momento, relega la consuetudine a mera fonte del diritto residuale, ultima nella ideale gerarchia. Al contrario nel diritto internazionale si assiste ad un rovesciamento totale di prospettiva.
E’ questa , a mio avviso, la cartina di tornasole che smaschera il carattere del tutto fittizio, non necessitato e avvilente del concetto stesso di istituzione; in fondo lo aveva ben notato Immanuel Kant, quando chiedeva nel tentativo di costituire una società internazionale di popoli federati uno sforzo di ordine morale[3] che mirasse a superare l’egoismo nazionale. E per scardinare l’egoismo nazionale Kant, come d’altronde ogni buon illuminista, non scorgeva altra soluzione se non il ricorso ad un criterio fraternizzatore, metagiuridico e fondamentalmente originante da una antropologia positiva, il ritorno allo Stato di Natura.
Ma il vagheggiato Stato di Natura che tanta parte occupa nelle teorizzazioni alla Rousseau e più in generale illuministe tende a non considerare che la caratterizzazione istituzionale nasce nel momento in cui l’uomo inizia ad aggregarsi attorno ad un concetto di “bene comune” passando da una visione gerarchico-naturale ad una più prettamente istituzionale; la “rivoluzione neolitica”, per quel che sappiamo ad esempio della morfologia di Katal Huyuk[4], determina la rigida strutturazione del vivere umano, l’aggregazione, la nascita dell’elemento cultuale, la determinazione nodale dell’agricoltura e dell’allevamento, il sorgere di una esigenza stanziale.
Un senso spirituale femmineo, lunare, legato alla figura archetipica della Dea Madre fa nascere i primi tentativi di organizzazione della religione; e questo culto, unitamente ai primi processi produttivi, determina il bisogno di un apparato istituzionale, per quanto blando, che coadiuvi l’opera di stanziamento dell’uomo sul territorio. L’ideale stato di Natura, se mai ne è esistito uno, muore nell’istante stesso in cui più uomini consapevolmente devolvono ad una figura mitizzata la loro protezione.
L’Istituzione, per eccellenza, reca con sé l’idea che ogni individuo debba rinunciare ad una porzione della sua autodeterminazione per il “bene comune”, concetto liminale e sfuggente di cui più volte si è tentata una definizione con assai scarsi risult8ati; ma più che la definizione, mi sembra rilevante la constatazione che l’istituzione, per quanto grezza e primitiva, porta con sé uno svilimento dell’Individuo e la nascita inesorabile dell’egoismo sociale, di una gerarchia autoritaria plastica e fittizia in cui si sovverte il criterio platonico della funzionalità e si sostanzia il volto gretto dello sfruttamento.
La cultura è stata utilizzata come catalizzatore dell’asservimento dell’uomo, non è un mistero che, come sottolineato da P. Rossi, “perché il concetto di cultura potesse venir applicato anche allo stadio primitivo della evoluzione umana era necessario che il suo ambito si allargasse a comprendere – accanto al sapere scientifico, alle credenze religiose, alle manifestazioni artsitico-letterarie, al diritto e alla morale – anche i costumi ed in generale tutti i modi di comportamento acquisiti in virtù dell’appartenenza a una data società”[5]. Elemento di sintesi delle sovrastrutture di cui l’uomo si dota per regolare la sua vita e per governare i flussi naturali che, ancora, gli incutono timore e di cui non riesce ad operare una razionalizzazione piena e compiuta.
Lo sviluppo del senso religioso nasce, cresce e si determina proprio da un infinito senso di smarrimento e di terrore, l’uomo che acquisisce consapevolezza della sua solitudine nel mondo avverte il bisogno di trincerarsi dietro una barriera elementale; “di fianco all’elemento che confonde, sorge quello che ammalia, rapisce e, stranamente, spesso crescendo in intensità fino all’ebbrezza e allo smarrimento; è l’elemento dionisiaco nell’efficacia del numen”[6].
Non a caso, il corollario istituzionale che circonda la religione, nei suoi tratti strutturali di procedura, rito formale, burocrazia del sacro, finisce per traslarsi alle prime tipologie di società, in cui avviene la decurtazione della sfera di autodeterminazione del singolo.
Si tratta di un sacrificio e di una limitazione che siamo disposti ad accettare proprio perché, intrinsecamente atterriti dalle forze oscure che squassano l’esistenza umana sin dalla notte dei tempi, abbiamo necessità di credere che il consesso sociale esista per liberarci dalla barbarie.
E così o dobbiamo ricorrere ad una antropologia negativa, per cui il primitivo è un essere inferiore, rozzo, appunto barbaro e violento, oppure ci rifugiamo nelle chimere di un egualitarismo livellatore, di sostanza turpemente antropologico-positiva. Paradossalmente, entrambe queste prospettive finiscono per arrivare alla stessa concettualizzazione dell’uomo pre-neolitico.
Il concetto di primitivo come essere affetto da infantilismo, che deve essere guidato nei suoi più elementari passi, è frutto del pregiudizio etnocentrico che anima e nutre tanto le idee antropologico-negative quanto quelle positive; i più solerti sostenitori dello Stato di Natura sono anche quegli autori che dell’uomo di Natura hanno una visione edulcorata, naive[7].
Dobbiamo dirlo chiaramente; l’uomo non ha alcun bisogno di Istituzioni, di uno Stato sociale totalizzante ed omologatore.
Non esistono pacta che siano servanda.
“La società è ovunque trainata dal ciclo gravoso del lavoro e del consumo. Questo movimento cieco e sordo, così lontano da uno spirito di cameratismo, è sempre accompagnato da angoscia e insoddisfazione” ha scritto John Zerzan[8]. E con lui condivido l’idea che la frustrazione, unitamente alla aggressività, tanto per utilizzare la nota partizione teorica di Durkheim, nasca proprio dal senso di inadeguatezza sociale sperimentato e sofferto dall’uomo davanti al surplus produttivo; se un ideale contratto sociale esistesse per rendere liberi e sicuri gli uomini, non si dovrebbero certo registrare gli endemici fenomeni di repressione psicologica e di rabbia cieca che pure devastano molto spesso il senso esistenziale di molti individui.
Come sottolinea la criminologia istituzionale “l’immigrazione, l’urbanizzazione, le facili illusioni di ascesa sociale prodotte dalle culture industriali rappresentano i presupposti dell’interesse ecologico ai grandi mali sociali come il suicidio, la malattia mentale, l’alcolismo, la criminalità”[9]. La società porta i mali che essa stessa poi tenta di risolvere, in un cortocircuito repressivo che determina l’annichilimento del singolo e la sua sottoposizione alle dinamiche stranianti di un potere invisibile, percepito come ingiustizia.
Disorganizzazione, anomia, sottoculture, devianze metropolitane, nascita del crimine sono concetti elaborati proprio per far fronte alla dissoluzione del dominio sociale; come l’uomo necessitato a nascondersi dietro il paravento di una religione non naturale per giustificare la sua stessa esistenza nel mondo, così il Sistema istituzionale predispone una gabbia giustificativa che al tempo stesso produce devianza e repressione della devianza stessa.
Se l’Istituzione fosse un concetto naturale, ontologicamente connaturato alla dimensione umana, non si assisterebbe certamente allo sdilinquimento dell’individuo nel suo preciso ruolo sociale; la frustrazione che si determina dal mancato raggiungimento degli standard posti dal Sistema è una mancata realizzazione del consolidamento del Sistema stesso, un fallimento i cui elementi esiziali vengono scaricati sulle spalle del singolo.
La produzione diventa un nuovo paradigma soterico, la devianza è eresia da estirpare con ogni mezzo.
Giova rammentare che nella raffinata chiave di lettura ermeneutica proposta da Eliade sul senso del misticismo[10] la sollecitazione al sacro diviene un abbracciare completamente ed irrevocabilmente i valori sacri. L’uomo storico secondo Eliade è scisso tra due distinte polarità, ripugnanza della concessione totale al sacro e impossibilità a rinunciarvi del tutto; da ciò origina la contraddizione tra nostalgia dell’autentico e inautenticità esistenziale assunta di fatto.
“Abbiamo preso una svolta mostruosamente sbagliata con la cultura simbolica e la divisione del lavoro, passando da una condizione di incanto, conoscenza e totalità all’assenza che oggi troviamo al centro della dottrina del progresso. Vuota e sempre più svuotata, la logica dell’addomesticamento, con la sua esigenza di controllo totale, ci mostra oggi la rovina di una civiltà che rovina tutto il resto “[11] ha scritto Zerzan. E’ indubbio che l’Istituzione sociale abbia assunto la fisionomia di una religione, la religione della produzione e del lavoro.
Non solo; i ritmi meccanici ed alienanti del lavoro moderno hanno finito con l’informare di sé anche la caratterizzazione urbana, topografica, delimitando e segmentando le aree di vita dei singoli individui. La vita è istituzionalizzata, nel senso criminologico dell’aggettivo, cioè deprivata, dimidiata, sottoposta a penetrante controllo per evitare opzioni alternative.
Mediante il controllo sull’accesso alla informazione, il Sistema reitera la sua presa sul sociale; è la comunicazione il centro della nuova frontiera su cui si gioca la battaglia per il mantenimento dello status quo.
D’altronde come scrive Heidegger[12] “l’ in-vista-di rende possibile un per me esistenziale, egoistico o meno ma, anche, altrettanto originariamente, un per-lui e qualunque per-cui ontico”; la sfumatura colta si chiarisce nell’essere del soggetto come parlante, comunicante, nella sua irriducibilità all’ordine dei semplici esseri viventi, ai quali può essere riferito un qualche linguaggio. Senza comunicazione e senza interscambio simbolico il singolo viene fatto sentire dal Sistema come una monade priva di significato; è questo il ricatto posto in essere da chi monopolizza l’informazione.
Il mantenimento ordinato del consesso sociale passa di necessità attraverso il dominio , esercitato in modo uniforme, sulla possibilità che il singolo disponga di una porzione di sua propria informazione sulla realtà fenomenica e politica circostante; l’istituzione non tollera altra informazione se non quella su cui poggia le sue radici, e non può quindi permettere che il dato fondante vada disperso in mille rivoli di contro-informazione.
Una città contemporanea è un ghetto il cui scopo architettonico peculiare è la frammentazione della circolazione dell’informazione; aree autoreferenziali, istituzionalizzate nel senso fatto proprio da Foucalt, in cui il singolo perda ogni identità e specificità e diventi un atomo-fluttuante impotente davanti al Grande Fratello della tecnica.
In fondo era Orwell a scrivere che chi controlla il passato controlla il presente, chi controlla il presente controlla il futuro. La rideterminazione in funzione utilitaristica del passato, la sua manipolazione attraverso le fabbriche dei sogni, l’alterazione del principio metastorico di una gerarchia naturale che pre-esiste al consesso sociale sono punti focali della contemporanea società dell’informazione.
Non esiste più un reale oggettivo ma solo tante sfumature di realtà imposte dal dominio istituzionale; “E’ il reale, non la mappa, le cui vestigia continuano ad esistere qua e là, nei deserti che non sono più quelli dell’impero, ma i nostri. Il deserto del reale “ scrive Baudrillard[13], decostruendo analiticamente il trionfo del post-moderno.
Non più fase transitoria, ma carattere genomico del Sistema al potere, il postmoderno ha delineato l’emersione di una modifica della percezione e del tessuto della realtà in cui siamo calati, tanto che dovremmo parlare ormai di una cristallizzazione del vivere istituzionale nel possesso dell’informazione[14].
Si accennava al ruolo svolto dalla ritenzione informativa ad un livello architettonico, ma c’è un ulteriore fattore da prendere in considerazione ovvero il mantenimento degli individui in uno stadio di semi-analfabetismo tecnologico; non a caso questa funzione è segnalata con cura da Bruce Sterling, quando afferma “la dimensione e la velocità di questa immolazione silenziosa sono enormi. Tristemente le vittime della obsolescenza non vengono nemmeno riconosciute, infatti molte di loro non sanno di essere diventate tali”[15], è evidente che all’endemico e virulento aumento della tecnologia avanzata non corrisponde un altrettanto rapido processo di istruzione della massa, cosa questa che determina l’impossibilità di accesso alla fonte di informazione.
Le uniche informazioni concesse sono quelle di natura ludica e ricreativa, giochi per computer, inani e vuoti programmi televisivi, film che rinfocolano i miti creatori del sistema istituzionale.
Ma evitare che il cittadino medio acceda alla informazione è per il Sistema il modo più sicuro per evitare qualunque ipotesi rivoluzionaria; è ben noto che Internet rappresenta una forma non-mediata di immissione dell’individuo in canali informativi, e quindi per scongiurare soluzioni di democrazia diretta digitale al Sistema non rimangono che due soluzioni draconiane:
- Limitare o comunque alterare l’accesso alla tecnologia di base, di modo che Internet esista come una mera chimera inutilizzabile
- Imprigionare il singolo in una città-ghetto, in cui l’informazione sia manipolata, alterata, devastata.
In questo secondo ordine di idee è sempre Sterling[16] a notare come l’architettura moderna sia ispirata a modelli istituzionali semi-carcerari, in cui le definizioni cromatiche, la volumetria e la topografia delle varie zone, limitino la libera circolazione della informazione. In ciò un ruolo di primissimo piano è svolto dalla macchina.
“Dall’orientamento verso la produzione quantitativa deriva la tendenza a concentrare l’efficienza della macchina nell’esclusiva produzione di beni materiali. La gente sacrifica il tempo e le soddisfazioni attuali nella mira di procurarsene altri, in quanto suppone che ci sia un rapporto diretto fra il benessere e il numero di vasche da bagno, di automobili e di altre simili cose fatte a macchina. E’ tipico della macchina il fatto che invece di rimanere limitati ad una sola classe questi ideali si sono estesi, per lo meno come aspirazione, ad ogni strato della società. Si potrebbe definire questo aspetto della macchina come ‘materialismo senza scopi’. Ha il particolare difetto di gettare un’ombra di discredito sopra tutti gli interessi e le occupazioni non materiali, condannando gli spunti puramente estetici ed intellettuali perché ‘non servono a nulla di utile’” sostiene Lewis Mumford[17], mettendo in luce come l’anomia, la devianza, sia dalla Società percepita come un momento di scomparsa dal sociale, di totale invisibilità; ciò che non può essere interconnesso con la macchina, molto semplicemente, non esiste più.
Per vedere gli effetti perversi, e sinistramente pratici, di questa tecnica di mantenimento dello status quo basterebbe analizzare la topografia di città iper-moderne come Los Angeles, Tokyo, Singapore, in cui il passato viene ricontestualizzato, plasmato, fuso, superato e dimenticato nelle furiose linee evolutive high-tech; città senza una prospettiva e senza un centro, con aree abitative popolari incistate le une sulle altre come escrescenze tumorali tra lucori neon e cablature di enormi grattacieli.
Queste città presentano un’area per una fascia sociale dominante, vera fortezza chiusa in se stessa dove si mantiene vivo il sacro fuoco della informazione, e poi altri ghetti, altri slums, dove i cittadini vengono abbandonati a loro stessi, poveri, privi di tecnologia, privi di assistenza, costretti ad ingurgitare massive dosi di televisione spazzatura (che funge da ideale anestetico per eventuali moti di rivolta).
Quando Mumford delinea come aspetto centrale della nuova città il potere elettrico, genericamente tecnologico, egli sa bene che la macchina è solo uno strumento funzionalmente neutro dietro cui si cela sempre e comunque l’uomo.
Anche se il ricorso alle “macchine”, intese in senso moderno, è limitato, le strutture del potere ragionano ed operano già come una “megamacchina”, cioè con la gerarchia e l’organizzazione che consentono di mobilitare grandi masse di persone e grandissime quantità di materiali per realizzare opere pubbliche e private funzionali al consolidamento e all’estensione del potere stesso.
Una mobilitazione totale produttiva, in grado di determinare alienazione e reificazione.
La Macchina in questa prospettiva è l’Istituzione e gli unici patti sociali da rispettare sono i contratti di asservimento al potere centrale.
Eppure la fase contingente di post-moderno reca in sé una fessura che può tradursi in sfera di operatività politico-rivoluzionaria, se compresa e gestita in modo consono alla lotta da portare avanti; poiché il Sistema impone la socializzazione collettivizzante e massificante, la prima opzione deve essere la scomparsa dal sociale.
Quando Hakim Bey, descrivendo uno dei tratti somatici della Zona Temporaneamente Autonoma, scrive che “la TAZ è in un certo senso una tattica di scomparsa[18] “ coglie un punto fondamentale che era già caro allo Junger del Trattato del Ribelle; la scomparsa deve essere una ritirata, non una fuga. Perché arriverà poi il momento, una volta percorsa la strada della bonifica dell’Io da tutte le scorie borghesi ed informi che compendiano la Post-Modernità, di tornare nel sociale e di imporre le regole del gioco apprese nel bosco.
Da questo punto di vista mi sembra evidente che la TAZ dovrebbe poi perdere la sua funzione schiettamente a tempo determinato ed assumere una dimensione di liberazione dell’area dall’influenza del Capitale.
In questo si situa l’importanza della gerarchia naturale, legata a principii metastorici e ad una visione ideale che pre-esiste ontologicamente al consesso sociale e ai vagheggiati patti sociali; come afferma Evola[19] “il cardine dell’etica tradizionale è esser sé e restare fedeli a se stessi. Ciò che si è, bisogna riconoscerlo e volerlo, anziché cercare di realizzarsi diversi a quel che si è “.
Non stiamo infatti parlando di una superficiale ed epidermica ribellione, destinata ad essere vinta in pochissimo tempo, ma di un sabotaggio delle dinamiche informative sottese al consesso istituzionale; come parametri da reimpostare, i dati strutturali dell’Istituzione decadono se si sottrae loro la linfa da cui traggono vita. E se questi dati vengono reimpostati, è evidente che l’istituzione stessa perderà vigore e al suo posto tornerà una fisionomia spiritualmente più accettabile, quale è quella dell’orda.
Una orda tecnologica che faccia del tecnoprimitivismo la sua arma più pericolosa, chè qui non si vagheggia di improbabili luddismi o di fughe precipitose nella “natura”; per tecnoprimitivismo intendo una predisposizione ad usare la tecnologia avanzata con un approccio liberato e nomadico, secondo l’insegnamento della pre-esistenza dei valori.
“Nell’idea va riconosciuta la nostra vera patria. Non l’essere di una stessa terra o di una stessa lingua, ma l’essere della stessa idea è ciò che oggi conta” afferma Evola[20]; questo severo e lucido ammonimento assume una sua nuova, intrigante definizione se declinato nel senso del post-moderno e del tecnologico.
Perché è evidente che se la battaglia ora si svolge sul piano della comunicazione, del digitale, la mera fedeltà ad una terra altro non sarebbe che una fallace ipostatizzazione dello spirito rivoluzionario; una nuova prospettiva di sangue e suolo emerge dalle ombre dei canali di scorrimento veloce, e noi dobbiamo coglierla.
Non più una morfologia territoriale a cui ancorare il sogno impossibile di un ritorno, ma un andare avanti nomadico ma non sradicato che nella tecnica vede lo strumento migliore per perseguire lo scopo finale della restaurazione dei valori anti-sociali ed anti-istituzionali[21] ed in questa prospettiva tecnoprimitivismo non vuole essere una vuota formuletta da esotico eremitaggio intellettuale, ma visione di pura prassi politica.
Torniamo alle nostre città totalizzanti, consideriamo le aree-ghetto tenute separate, quasi in una sorta di profilassi sociale, dal locus del potere istituzionale; mentre si sedimenta una zona dorata ricca di occasioni formative, lucrosi vernissage mondani, campi sportivi e fluire copioso di informazione, nel restante quadro cittadino non vediamo che miseria, povertà, inurbamento di masse immigrate, genesi di fenomeni devianti che tra faide e guerre tra miserabili tengono occupate le menti dei singoli, evitando che essi possano focalizzare la loro rabbia contro lo status quo.
“La militarizzazione dello spazio nella città americana viene giustificata in termini di sicurezza personale.Sempre di più qui in California la tendenza è vivere in comunità rinchiuse in una gabbia, dietro a dei muri, protetti da multinazionali della sicurezza personale, usando polizia privata e i più sofisticati dispositivi elettronici da portare indosso o come succede a Bevirly Hills avere delle stanze segrete dove potersi nascondere ai terroristi“ ha dichiarato Mike Davis[22].
L’immigrazione in ciò gioca un ruolo di primo piano; lo scontro tra culture non assimilabili, tra linguaggi non compatibili, tra livelli etnoculturali non riducibili alla pura omologazione del meticciato determinano un fraintendimento comunicativo ed una lotta senza sosta per il mero predominio territoriale, da estrinsecarsi nel nulla sociale.
I poveri continuano a spartirsi le briciole che il Sistema, ipocritamente, elargisce loro. Chiusi nei loro ghetti, schiavi di mode e di trends, affascinati da standard irrangiungibili, non possono che covare una frustrazione priva di sbocchi.
Questa rabbia deve essere canalizzata ed indirizzata precisamente contro il nemico istituzionale. Ma per fare ciò è necessaria una educazione tecnologica, un rispetto delle proprie specificità, un periodo di bonifica ordalica da tutte le deiezioni moderne; solo una volta di ritorno dal Bosco, potremo portare il Bosco nelle metropoli e nei canali digitali.
Il primo stadio del tecnoprimitivismo deve essere quindi la scomparsa nel sociale; è necessario creare aree fluttuanti che si spostino su internet e nelle città, impedendo al Sistema di comprendere dove sia situata la Tortuga, e qui procedere alla organizzazione dell’orda, assegnando a ciascuno il compito platonicamente funzionale ed educando i meno preparati.
E’ necessaria una padronanza assoluta di sé e degli strumenti che ci si appresta ad usare nella guerriglia informatica.
Ho citato la Tortuga non a caso; è Peter Lamborn Wilson[23] a tratteggiare con sufficiente chiarezza il significato della pirateria navale, come forma di Rete della comunicazione in perenne movimento, in cui ciascun vascello è patria di se stesso nel momento contingente pur essendo ancorato ad una patria ideale (la Tortuga appunto) che rappresenta l’approdo metafisico con cui vincere l’angoscia del blu cupo dell’Oceano.
Le isole su cui i Pirati liquidavano le veloci fasi “amministrative” come ad esempio la spartizione del bottino non avevano alcuna legge scritta né istituzione preposta alla risoluzione dei conflitti; le situazioni potenzialmente disarmoniche ricadevano sotto il dettato dei Capitoli, con cui i Pirati regolavano la loro vita di bordo. In poche parole, le loro uniche autoregolamentazioni si situavano nel momento dinamico del navigare, quando essi erano ombre sfuggenti e dolorose spine nel fianco del commercio imperiale; ma quando poi assumevano la fisionomia statica del “ritorno a casa”, inteso in senso schiettamente simbolico, rifuggivano da qualunque ipotesi di sottoposizione ad una istituzione burocratica.
Inoltre la gerarchia dei Pirati era una gerarchia naturale, non autoritaria in modo gretto; funzionale alla vita di battaglia e di mare, i compiti erano accettati e svolti nel migliore dei modi, nel nome di una Patria interiore e di un efficace Comandante che agiva come primus inter pares.
Un inetto non avrebbe mai potuto comandare una ciurma, sarebbe finito in pasto agli squali molto prima, come pure ogni singolo individuo non capace di adempiere una funzione; sulle navi si viveva in uno stato di continua tensione ideale, come fosse una sublimazione marinara del socialismo di trincea.
Ma i pirati effettivamente fecero qualcosa di ancora più clamoroso; svilupparono la prima organica e coerente guerriglia dell’informazione, passando di nave in nave, di isola in isola, tutte le notizie che coglievano, spostamenti di truppe nemiche, insediamento di nuovi governatori, merci pregiate attraccate in qualche porto.
Senza egoismo mercantile e senza un frainteso concetto di “bene comune” declinato in senso istituzionale, trascorrevano la loro vita in modo essenziale, a-morale, spartano, guerriero.
Il Jolly Roger che garriva al vento segnalava una zona liberata in perenne movimento, una informazione non plasmata né addomesticata. E certo nessuno potrebbe accusare i Pirati di essere anti-tecnologici; erano dotati delle migliori navi, godevano di ampie conoscenze cartografiche, strategiche e geografiche, sapevano giocare d’astuzia e quando dovevano colpire colpivano duro senza tentennamenti dettati da moralità.
Traslando l’esempio dei Pirati alle nostre megalopoli incistate le une sulle altre, comprendiamo agevolmente che esiste la possibilità di una pirateria gerarchicamente funzionale che sia in primo luogo rifiuto dei modelli e dei ritmi imposti ed in secondo luogo, effettuato il ritorno dal bosco o dalla Tortuga tanto per continuare a seguire la suggestione piratesca, esempio per risvegliare gli umanoidi dormienti.
In uno straordinario romanzo genericamente definibile di fantascienza[24], affresco multiforme debordante di una distopica città del futuro, Bellona, lo sguardo dell’osservatore si appunta sulla città come luogo non solo di produzione della cultura, ma come “sede naturale dell’uomo civile”.
L’autore, Samuel Delany, sa che la città è un organismo complesso, che l’organizzazione dello spazio urbano non è un agglomerarsi casuale di strade e case, ma risponde a combinazioni e stratificazioni di funzioni e bisogni, che producono a loro volta differenziazioni sociali variabili nel tempo e nello spazio; sa che la città produce rappresentazioni di sé stessa e dei suoi abitanti, sia da parte delle classi egemoni che da parte di quelle subalterne.
E queste stratificazioni sono dettate dalla informazione.
Chi possiede l’informazione può ricombinare la città, la sua fisionomia, la sua struttura.
Nel romanzo, alcuni ragazzi appartenenti ad una gang di strada, pirati post-moderni che trascorrono il loro tempo a sabotare il senso esistenziale imposto in ogni modo possibile, decidono di inurbarsi nel centro cittadino e scoprono lentamente che lo spazio urbano deve essere in qualche modo azzerato, reso neutro, “purificato” appunto col fuoco perché possa ospitare la sperimentazione sociale in atto.
Ma il fuoco, visibile da lontano, scompare quando si entra in città, perché qui il fumo, la caligine imperano e coprono tutto, anche il sole e le stelle: il colore dominante è il grigio.
Di nuovo si suggerisce un carattere “neutro” della città: i colori originali di Bellona, se mai vi sono stati, sono scomparsi sotto la coltre caliginosa per dare risalto ai colori dei nuovi abitanti.
In questa dimensione, Dhalgren condivide l’enfasi con l’incipit di Neuromante[25], città di colore grigio, anestetiche come una corsia d’ospedale, percorse da bagliori neon, città cablate, prive di una dimensione veramente umana e soprattutto prive di sfere d’ombra in cui il singolo possa nascondersi per covare i suoi spazi di libertà; specchi, vetrate di grattacieli, insegne luminose, conformazione specifica dei palazzi, telecamere di sorveglianze, videofonini decurtano ogni ipotesi di ritirata nel bosco, fino a quando almeno non saremo in grado di reimpostare una nuova tenebra.
E’ evidente in questa prospettiva che la temporaneità della liberazione funge da necessità operativa; bisogna evitare che il Capitale ricombinante individui la liberazione in corso.
Il sabotaggio deve essere la proposizione di un contro-modello, da lanciare come fosse una tossina nella rete della comunicazione; fino a quando saremo sottoposti al “vivere civile” non avremo nulla di intrinsecamente rivoluzionario perché come insegna Debord “con la divisione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario sull’attività svolta, si perde ogni comunicazione personale diretta tra i produttori. Seguendo il processo dell’accumulazione dei prodotti divisi e della concentrazione del processo produttivo, l’unità e la comunicazione divengono attributo esclusivo della direzione del sistema. Il successo del sistema economico della separazione è la proletarizzazione del mondo[26] “.
La separazione opera come necrosi della coscienza individuale. Per questo l’interconnessione informativa deve essere pregiudiziale a qualunque prassi rivoluzionaria, proprio per evitare una omologazione ontologica.
L’occupazione dei media tattici è uno strumento fondamentale[27], se si pensa a quello che Lacan dice di radiofonia e televisione, ovvero che essi sono il trionfo del discorso del Padrone[28]; attraverso una ricontestualizzazione del significato dei mass media si può orientare la polarità percettiva della società contemporanea, fino a propiziarne la dissoluzione totale.
Ritengo estremamente significativa la recente esperienza, risalente all’Estate 2007, di una web-radio di ispirazione nazional-rivoluzionaria, Radio Bandiera Nera[29]; innanzitutto la scelta di non essere legati ai paradigmi della frequenza che spesso, anche nella pirateria radiofonica, è una limitazione di non poco conto, in secondo luogo la trans-nazionalità che riconosce come unico dato fondante l’appartenenza di speakers e ascoltatori ad una visione non-conforme alla vulgata istituzionale.
Parimenti positiva è l’idea di affrontare uno spettro enorme di generi musicali, ridefinendo il concetto di identità su base concettuale ed ideologica e non più ontologica.
Unitamente a questa sana visione, credo che un tecnoprimitivismo efficace dovrebbe ad esempio contrastare il diffuso e patologico fenomeno dei rumori urbani; non mi riferisco solo alle immissioni rumorose determinate dalla società industriale colta nel suo momento di produzione, ma anche alle tecniche invasive di commercializzazione come ad esempio il reiterato uso di muzak nei centri commerciali[30].
Ad esempio si potrebbe sostituire la muzak in filodiffusione in un fast food con nastri su cui si sia preventivamente registrata la sanguinolenta agonia di un vitello, di modo che lo shock salvi i potenziali fruitori ed apra loro gli occhi sul “prodotto” che stanno per acquistare.
Oppure una riappropriazione delle sfere urbane mediante una sonorizzazione elettronico-ambientale raffinata di quelle aree, facendo comprendere ai cittadini prigionieri dell’ingranaggio sociale che anche il semplice relax può essere un fattore rivoluzionario.
Propongo l’organizzazione di teknival[31] genuinamente ispirati ad una concezione gerarchico-naturale della esistenza, in antitesi alla dissoluzione dell’individuo nella logica sociale; d’altronde nello scatenamento puramente fisico riemerge quello spirito sciamanico che “agisce in stato di estasi e si avvale di spiriti tutelari, possiede prerogative particolarmente complesse, non riconducibili ad una unica funzione; gli compete tra l’altro il controllo sulla zona di confine che separa la sfera della vita da quella della morte“.
In una fase ancora ulteriore la città stessa dovrebbe essere reimpostata e ridisegnata, seguendo linee più consone ad una vita umana che non abbia più nella merce e nella produzione un elemento fondante. In questo quadro mi smebra molto incoraggiante la nuova dimensione assunta dalle Occupazioni a Scopo Abitativo, che da risposta puramente contingente al problema abitativo si stanno proponendo in modo costruttivo come “isole di scomparsa dal sociale” e di resistenza contro lo stritolamento operato dal Sistema.
Ma prima di tutto, lo ripeto, è necessario che il Ribelle tecnoprimitivista raccolga e raffini le idee, si purifichi da quanto di borghese permane nella sua forma mentis, studi il nemico e gli strumenti offerti per operare la Rivoluzione, continuando a generare e a propiziare sacche di scomparsa sociale nel cuore della metropoli, facendo fiorire il Bosco nei luoghi più improbabili.
Poi si tornerà nella società, pronti a portare il bosco ovunque.
[1] Sulla nascita e sullo sviluppo del principio in questione sembrano di assoluta preminenza le teorizzazioni della cd Teologia Bellica portoghese, ad opera di Suarez ed Hervada i quali nel tentativo di ricondurre i trattati e soprattutto la dimensione bellica ad una maggiore coerenza con i dettami morali cristiani iniziarono a legare la visione escatologica cristologica con gli interessi sovranazionali, sul punto vedi P. Bellini, “Saggi di Storia dell’Esperienza Canonistica”, Giappichelli, p.118
[2] B. Conforti, “Diritto Internazionale”, ESI, VII Ed., p. 47
[3] “Uscire dallo Stato eslege di barbarie ed entrare in una federazione di popoli, nella quale ogni Stato, anche il più piccolo possa sperare la propria sicurezza e la tutela dei proprii diritti non dalla propria forza o dalle proprie valutazioni giuridiche, ma solo da questa grande federazioni di popoli, da una forza collettiva e dalla deliberazione secondo le leggi della volontà comune” I. Kant, “Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”, in Kant, Scritti politici e di filosofia del diritto, UTET, Tesi Settima
[4] Sottolinea P. Scarpi, in “Manuale di Storia delle Religioni”, Laterza, p. 8, come l’uomo diventi un produttore di cibo, attraverso allevamento di animali e coltivazione di piante, interrompendo così la precedente tradizione nomadica.
[5] P. Rossi (a cura di), “ Il Concetto di Cultura”, Einaudi, pag. X
[6] R. Otto, “ Il Sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale”, Feltrinelli, p. 43
[7] Per una critica a questo concetto, con una disamina organica dei Naturvolker, P. Bonte – M. Izard, “Dictionnaire de l’Ethnologie et de L’Anthropologie”, PudF, p. 72
[8] J. Zerzan, “Dizionario Primitivista, Nautilus, p. 27; Zerzan si sofferma diffusamente nella sua decostruzione del concetto di società sull’elemento nodale rivestito dall’oppressione nei cicli di lavoro, non a caso collega il concetto di produzione-società e reificazione.
[9] G. De Leo – P. Patrizi,” La Spiegazione del Crimine”, Il Mulino, p. 41
[10] M. Eliade, “Trattato di Storia delle Religioni”, Einaudi, pag. 477
[11] J. Zerzan,” Futuro Primitivo”, Nautilus, p. 52
[12] M. Heidegger, “Principii Metafisici della Logica”, Il Nuovo Melangolo, p. 226
[13] J. Baudrillard, “La Precessione dei Simulacri”, citato in Larry McCaffery, “Il Deserto del Reale”, Editrice Nord, p. III
[14] Secondo F. Jameson, “Postmodernism or The Cultural Logic of Late Capitalism”, in New Left Review, n.146, p. 78, a causa della serrata lotta tra multinazionali per pervenire al controllo maggioritario del know-how e quindi della informazione produttiva, si sono elaborate strategie di marketing molto raffinate e penetranti, che poi sul lungo periodo sono penetrate nel tessuto sociale; ad esempio la raccolta organica di dati personali, il citato know-how, in un certo senso la più importante risorsa globale è divenuta l’informazione stessa.
[15] B. Sterling, “The Digital Revolution in Retrospect”, da Communication of the ACM, Febbraio 1997
[16] in “The Virtual City”, Discorso tenuto alla Rice Design Alliance di Houston, Texas, il 2 Marzo 1994
[17] L. Mumford, “Tecnica e Cultura”, Il Saggiatore p. 294
[18] H. Bey, “TAZ”,. Shake Edizioni, pag. 43; più oltre, a pagina 51, Bey riprende il concetto situazionista di driftwork, elaborato da Lyotard, come un fluttuare rivoluzionario tra i canali della informazione di modo che il Capitale non possa individuare il reagente rivoluzionario, imprigionandolo nella cristallizzazione di un attimo sociale. E’ di tutta evidenza infatti che se il requisito della temporaneità fosse sostituito dalla permanenza, il potere istituzionale potrebbe individuare la falla anomica e coagularsi attorno ad essa per asfissiarla.
[19] J. Evola, “Etica Aria”, Europa, p. 28
[20] J Evola, “Orientamenti”, Settimo Sigillo, p. 42
[21] Entrambe le espressioni devono essere intese nel loro senso più genuino; non si sta proponendo un nichilismo passivo, limitato al momento del rifiuto. Deve essere chiaro, quando si parla di antisocialità, che ci si riferisce alla necessaria reazione contro la istituzionalizzazione dei valori che l’Uomo conosceva sin dalla sua comparsa sulla faccia della terra e che sono poi stati sviliti e degradati dalla nascita della Istituzione.
[22] Mike Davis, insegna teoria della Città all’Università della California ed è autore, tra gli altri, dell’eccellente saggio di architettura sociale ”Città di Quarzo”, ManifestoLibri. Le dichiarazioni qui riportate vengono da Decoder, n. 12
[23] In “Utopie Pirata”, Shake Edizioni, p. 129
[24] S. R. Delany, “Dhalgren”, Wesleyan
[25] W. Gibson, “Neuromante”, Editrice Nord, p.3 “il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto “; il romanzo di Gibson narra le vicende di un pirata informatico, Case, incastrato in un delicato gioco geopolitico internazionale, capolavoro di estrapolazione sociale e tecnologica e narrazione vivida, d’impatto.
[26] G.Debord, “La Società dello Spettacolo”, Massari editore, pag. 51; come noto per Debord, coscienza del desiderio e desiderio della coscienza sono il punto nodale della edificazione della società dello spettacolo, intesa proprio come contemplazione della merce (p. 63).
[27] Si veda sul punto A. Borgnino “Radio Pirata. Le magnifiche imprese dei bucanieri dell’Etere”, Castelvecchi
[28] J. Lacan, “Radiofonia. Televisione”, Einaudi, p.53
[29] Radio Bandiera Nera può essere raggiunta sul web ed ascoltata in streaming www.radiobandieranera.org
[30] Per Muzak, si intende generalmente una musica matrica, stereotipata, di bassa frequenza, diffusa nei centri commerciali per stimolare l’acquisto.
[31] I Teknival sono festival ititeneranti di musica elettronica in cui la componente musicale va di pari passo con quella di liberazione della percezione, da raggiungersi mediante il ballo sfrenato ed in alcuni casi anche mediante il consumo di particolari sostanze psicotrope, vedi in proposito i libri “Traveller e Raver” di R.Lowe – W. Shaw , Shake Edizioni e “Trance &Drones” di G.Dal Soler- A.Marchisio, Castelvecchi. Ovviamente prima che qualcuno sia colto da spasmi di moralismo anti-tossicologico, preciso che l’utilizzo delle droghe non è una componente inscindibile o necessitata, come non lo era nelle civiltàa base sciamanica, ma solo eventuale e da utilizzarsi secondo rigorose metodiche che mancano del tutto negli inutili Rave attuali.