Voci notturne e visione simbolica dell’immagine: per un nuovo cinema iniziatico – Da Eretici del Terzo Millennio Luglio 2013
Voci notturne e visione simbolica dell’immagine: per un nuovo cinema iniziatico
Da Eretici del Terzo Millennio – Anno 2013
Molti di voi conoscono i picchi qualitativi della nota serie di culto “Twin Peaks”, capace di generare una inquietudine nello spettatore difficilmente riscontrabile nella produzione successiva di serie televisive. Il lavoro di David Lynch e Mark Frost, rappresenta a nostro parere una delle pietre di paragone in termini di atmosfera, inquietudine e simbolismo per chi voglia fare un certo tipo di “cinema”.
Ma, al di là del capolavoro di Lynch, è proprio in Italia che si può rintracciare un esempio di serie ad alto contenuto qualitativo e simbolico, seppure non in grado di suscitare un più ampio movimento, che slegato dalle istanze meramente commerciali, sia stato in grado di porsi come scuola cinematografica.
Qualche anno dopo l’imporsi di Twin Peaks infatti, mentre il grande pubblico si rivolgeva ad esempio ad “X Files” o a “Friends” la RAI trasmetteva, per poi non riproporlo praticamente più, uno sceneggiato a puntate scritto da Pupi Avati e diretto da Laurenti dal titolo “Voci Notturne”. Un esempio di serie televisiva che troviamo non solo particolarmente interessante dal punto di vista culturale e simbolico ma che è stata capace di pervadere lo spettatore di un senso di ineluttabile disperazione, di fato invincibile, di assenza di moralità in senso cristiano, di lontananza da un intervento risolutore di qualche presunto eroe, di un “buono” ecc. ecc. Si trattò di una perla del tutto ignorata dal grande pubblico.
Non sempre infatti la narrativa o il cinema sanno fornire un senso di disperazione realistica, che vada oltre la dialettica consolidata e classica del cinema americano: “eroe buono e vittorioso” contro “cattivi privi di sostanza psicologica e sempre perdenti”. In tutto ciò eccelle proprio “Voci Notturne”. In passato ci sono state delle eccezioni in tal senso, ma non molte. Certamente, andando alle radici della narrativa fantastica, l’esempio di H.P. Lovecraft si impone in primissimo piano per essere stato in grado di uscire dal labirinto di una visione “a lieto fine” e “consolatrice” della narrativa. Spesso i suoi protagonisti vengono colti dalla follia, oppure decidono di togliersi la vita ed anche qualora riescano in qualche modo a sopravvivere alla vicenda, risultano irrimediabilmente “spezzati”, tanto che l’atmosfera di irrazionalità cosmica non rende mai il lettore del tutto privo di un senso di “mancato pericolo”. Questo risultato viene conseguito dall’autore americano probabilmente anche grazie all’origine prima della sua narrativa: l’incubo, che egli viveva durante sogni di incredibile potenza.
In questo senso, nonostante alcune differenze rispetto alla narrativa lovecraftiana, il cinema di Avati negli anni ha saputo tessere ottimamente una serie di trame per nulla banali, spesso disturbanti, ricche di colpi di scena, non lontane da immagini al limite dello splatter. Ad esempio il noto film “La casa delle finestre che ridono”, scritto da Maurizio Costanzo e diretto da Avati, il quale è spesso citato come uno dei più riusciti film del regista. Certamente colpisce la perfetta atmosfera, che descrive un’Italia che purtroppo non c’è più, contadina, con il suo accento ancora forte, dalle sere chiare e calme lontane dal clamore cittadino. Eppure proprio in prossimità di questa arcadia si cela, dietro l’angolo, l’orrore, l’incesto, il proibito, il complotto, l’omertà. Una Innsmouth nostrana ? Non proprio. In Avati l’ambientazione della campagna emiliana gioca spesso in senso tranquillizzante, quasi pittoresco, eppure nonostante questo la violenza, il mistero, l’inganno sono in agguato. Pensiamo per esempio all’eremo in cui si trovano i protagonisti de “L’arcano incantatore”, oppure le campagne di “Magnificat” e proprio in questo senso il paesino di “La casa delle finestre che ridono”. In “Voci notturne” lo straniamento è raggiunto grazie – secondo noi – all’assenza di un reale protagonista, riducendo a brandelli la trama e l’indagine stessa oggetto del film. In un susseguirsi di particolari legati ad un culto arcaico etrusco/romano sopravvissuto ai giorni nostri, intersecato da trame oscure sul finire della seconda guerra mondiale e che occhieggiano ai noti interessi occulti in seno al III Reich, la serie garantisce la compresenza di ingredienti psicologici e spirituali già incontrati nella letteratura di Lovecraft: l’assenza di speranza, la presenza sotto traccia di una spiritualità altra ed in qualche modo aliena, i loschi traffici di una piccola cerchia di esseri umani che con tale spiritualità intrattengono degli innominabili rapporti, al limite tra la fantascienza e la negromanzia.
Nella serie di Avati la cerchia dei Pontefici romani in qualche modo sarebbe sopravvissuta attraverso i secoli, così come i loro rituali sacrifici umani. Tali pratiche perdurerebbero, cambiando forma e ramificandosi nel globo e poche sono le tracce lasciate dai continuatori dei “facitori del ponte”, che Avati ci mostra da punti di vista sempre nuovi, destrutturati, in modo tale da rendere la visione d’insieme del mosaico narrativo quasi completamente manchevole, se non in qualche fugace apparizione.
In “Voci Notturne”, come in Lovecraft, è assente qualsiasi dimensione consolatoria, soprattutto quella di tipo religioso. Il Dio giudaico cristiano, sia esso considerato “giusto” o “buono”, non soltanto è “impotente” ma ancora di più egli risulta più “assente” che “disinteressato”.
“Voci notturne” per certi versi richiama il noto sceneggiato “Il segno del comando”, ambientato a Roma e prodotto nel 1971 dalla Rai; di cui recupera alcune atmosfere, i richiami ad una cospirazione che pervade una parte della società romana, qualche vago riferimento ai retroscena della seconda guerra mondiale e ai significati arcani nascosti nella musica. Ma il punto di vista è radicalmente differente. Il Forster, protagonista de “Il segno del comando”, è certamente il protagonista indiscusso del film e suo è il punto di vista principale sulla maggior parte delle vicende. Al contrario in “voci notturne” come abbiamo detto manca un personaggio unitario e la soluzione all’enigma manca anch’essa. I temi possono risultare quasi coincidenti, assolutamente non gli esiti e l’atmosfera: “romantica” in “Il segno del comando”, radicalmente “disincantata” in “voci notturne”.
D’altro canto, e per chi scrive si tratta di un elemento di importanza capitale, già nell’antichità l’incontro tra l’uomo e la divinità poteva risultare letale per l’umanità incauta, in quanto tale divinità poteva anche variare dall’accecante, al terrificante, oppure era portatrice di nefasti presagi. Ad esempio nella mitologia nordica, con ogni probabilità, Odino, la divinità sovrana, portava sì saggezza e ispirazione poetica ma anche morte, sortilegi, inganni ed in ogni caso non era una presenza consolatoria. Percorreva i cieli in occasione della temibile Wilde Jagd, la Caccia selvaggia.
Oppure il solo nominare il divino Thor poteva causarne l’apparizione e magari persino una apparizione irata, sconvolgente e senz’altro “tonante”. I Berserker, i guerrieri sacri di Odino, erano posti ai limiti della società, così le oscene processioni di adepti di Dioniso e le Menadi; infine Indra, la divinità guerriera loda se stessa nelle Upanishad come chi ha violato giuramenti, dilaniato asceti, come colui che è al di là del bene e del male.
“Conosci me, che sono Indra!
Ho ucciso il tricefalo Tvastar, ho dato ai cani selvaggi gli asceti Arumukha, violando numerosi accordi ho trafitto i prahalada in cielo, i pauloma nello spazio intermedio, i Mlanja in terra e non ho perduto neppure un capello. Per colui che mi conosce infatti non va perduto il potere del mondo, qualunque azione egli compia”
Discorso di Indra nella Kausitaki Upanishad VII sec. a.c.
Nell’Iliade l’incontro tra Dèi ed eroi è spesso conflittuale, nefasto, a seconda anche della parte pesa dalla divinità nel conflitto terreno. In un certo senso, rispetto a certo classicismo tutto sommato estetizzante, è la caccia Selvaggia di Von Stuck a rappresentare l’apparizione della divinità, nell’antico, in Lovecraft e per vie nascoste anche in Avati.
Tornando alla cospirazione occulta tema di “Voci notturne”, questa assume trame mondiali (a cavallo tra Italia, Svizzera e USA si muove infatti la figura di Norberto Sinisgalli, che per certi versi ricorda quella di Jospeh Curwen di “Il caso di Charles Dexter Ward di Lovecraft) e ovviamente anche “cosmici” nell’urtare e violare le leggi naturali che regolano la vita e la morte – proprio come nel caso Ward.
Viene da chiedersi acnora come e perché i seppure numerosi personaggi del mondo di Avati e del mondo di Lovecraft non riescano a non essere in qualche modo sempre spezzati dal confronto con tale spiritualità nascosta e oltraggiosa nei confronti delle leggi di natura.
Ne “L’arcano incantatore” il seminarista Giacomo Vigetti – e Giacomo è anche il nome del Fiorenza, la vittima dell’episodio di apertura di “Voci Notturne” – è irretito e travolto dall’inganno tessuto alle sue spalle, così come il giovane restauratore di “La casa dalle Finestre che ridono”. La risposta potrebbe celarsi proprio in una certa concezione del rapporto tra l’umano e il divino.
Infatti, come rileva l’orientalista italiano Pio Filippani Ronconi:
“La via iniziatica è in primissimo luogo un’esperienza di non consolazione, di morte. Di fronte all’animale umano si apre un abisso, un vuoto metafisico, per superare il quale non esistono appigli, non “tecniche”. La propria inadeguatezza viene sperimenta in modo terrificante e ineludibile”. (Tradizione e tradizionalismi)
Si potrebbe, seguendo la falsariga di Nietzsche prima e di Evola poi, tentare una ulteriore interpretazione. Nel mondo in cui “Dio è morto”, intendendolo come la figura normatrice e morale del Dio cristiano, che funge da ancoraggio metafisico per l’uomo cristiano e borghese e che nella religione popolare funge da consolatore e ricettore delle preghiere dei devoti, il senso di inquietudine, di disagio non trova più nella religione un appiglio ma anzi lascia e “condanna” l’uomo ad una libertà e ad una autonomia che egli non sa affrontare. A meno di affidarsi a succedanei e nuovi dogmi come la “Scienza” l’uomo comune non è in grado di vivere senza il Dio consolatorio e senza l’aggancio metafisico che ne giustifica l’esistenza. Così, a meno che sorga o si riveli un “superuomo” per dirla con Nietzsche o un “uomo differenziato” evoliano, il fato dell’umanità è disperatamente tracciato. E’ “Cavalcare la Tigre”, il testo che maggiormente affronta il problema dell’attitudine verso il mondo in cui appunto “Dio è morto”, in cui la libertà da Dio, conquistata dall’uomo contemporaneo ne diviene anche la causa prima di perdizione. In questo senso Luca Lionello Rimbotti rileva come:
“La natura è aristocratica, essa discrimina, assegna i ruoli, consegna i destini, distribuisce il bene e il male senza pregiudizio, senza calcolo, senza altro senso se non quello di chiamare alla più dura resistenza il nobile, al più fiero dolore l’aristocrate, al più tragico compito l’uomo superiore.” (La rivoluzione Pagana, edizioni di AR 2006)
Ed in questo senso risulta interessante una rilettura di certa filmografia e di certa letteratura, come quella di Avati, dove in modo simbolico ci si riaffaccia sull’inquietudine del mondo in cui l’uomo è condannato a non avere risposte.